Si fa presto a dire assaggio. Parte 2: esperti, degustatori e medaglie d’oro.

disegno di Tommaso Eppesteingher

Scegliere un vino per un consumatore, neofita o esperto che sia, non è cosa semplice. Questo perchè, fatte salve altre motivazioni, a volte importanti come il prestigio del produttore o l’acquisto di un bene di lusso con il quale fare bella figura, quello che il consumatore desidera quando acquista una bottiglia è che il suo contenuto sia buono, emozionate, gradevole ecc. Esperienze non verificabili al momento dell’acquisto a meno che non giriate armati di cavatappi.

Le guide, le valutazioni dei critici e dei giornalisti e i concorsi enologici dovrebbero servire a questo: aiutare il consumatore nelle sue scelte di acquisto. Davanti ad uno scaffale pieno di vini che altri, nei quali ripongo la mia fiducia, hanno assaggiato prima di me, so quali di questi sono stati apprezzati di più e quali meno.

Già, ma ha un senso scegliere un vino che un noto critico ha bollato con un 91 piuttosto che uno che ha preso soltanto 87? E poi perchè gli stessi vini prendono 3,4,5 grappoli, bicchieri, acini, bottiglie, raspi e vinaccioli un anno e niente l’anno successivo? E i critici o le commissioni dei concorsi sono tutti concordi? E se invece i vini che piacciono a me fossero invece altri e io seguendo le indicazioni di tutti questi signori me li perdessi per sempre?

La mia risposta prima di andare avanti è “keep calm e bevi quello che vuoi”, ovvero massimo rispetto della professionalità di tutti, wine-writers, critici, degustatori professionisti, sommelier, enologi, produttori e scienziati, ma prendiamoci un po’ meno sul serio: facciamo tutti parte di un medesimo circo.

Cominciamo con il fare una distinzione sostanziale, le valutazioni date dagli esperti in alcuni casi sono dei giudizi di qualità indipendenti, espressi su scale di diverso tipo, in altri (come nei concorsi) sono degli ordinamenti di serie di campioni sulla base del parametro della qualità. Non è la stessa cosa: nel primo caso è un voto dato sulla base della qualità dell’universo dei vini di cui l’esperto ha avuto esperienza e nel secondo è una “gara” nella quale il giudice deve ordinare i vini che gli sono presentati, dal più buono al meno buono.

Non sempre i voti sono destinati ad un’elaborazione statistica. A volte sono frutto della valutazioni di un unico esperto come spiega Robert Parker, il più noto critico di vini d’oltreoceano:

I have always sensed that individual tasters, because they are unable to hide behind the collective voice of a committee, hold themselves to a greater degree of accountability. The opinion of a reasonably informed and comprehensive individual taster, despite the taster’s prejudices and predilections, is always a far better guide to the ultimate quality of the wine than the consensus of a committee. At least the reader knows where the individual stands, whereas with a committee, one is never quite sure. Every article and tasting note we issue is attributed specifically to the writer responsible.”

Quindi il giudizio è dato da un unico degustatore in modo inappellabile: se ti interessa e hai fiducia nei nostri gusti e nella nostra esperienza bene, sennò chiedi consiglio a qualcun altro. Non è una classifica, non è una gara, solo un giudizio dato da un esperto che non pretende di dare un avallo scientifico ai suoi risultati. A parte il fatto che (forse per una mia deviazione quando vedo un numero immagino che ci sia stata una misura) non mi spiego perchè allora utilizzare una scala numerica (centesimale ma che comincia dal 50…nel caso del famoso assaggiatore americano), il ragionamento riportato non fa una piega. In fondo nel mondo della cucina avviene lo stesso, i critici se ne vanno in giro per i ristoranti e danno le stellette ai cuochi. Ma come insegna Antoine Ego la responsabilità è grossa: che si assaggi alla cieca o meno, bisogna usare lo stesso metro e lasciarsi sorprendere tanto dai grandi cuochi quanto dagli ultimi topastri.

da Ratatouie

Poi ci sono i concorsi con tanto di podio e medaglie. I vini, raggruppati per tipologia, vitigno, denominazione ecc., vengono sottoposti a delle giurie formate da un numero variabile di giudici esperti riuniti in commissioni che danno un voto di merito o che li classificano dal migliore al peggiore, e alla fine ne escono uno o più vincitori.

Qui cominciano i problemi perchè se si tratta di una gara occorre che tutti i corridori siano messi nelle stesse condizioni. Non si può far partire uno prima di un altro o misurare il tempo ad uno con un orologio che va avanti e ad un altro con uno che va indietro.

Se si raccolgono dei dati occorre raccoglierli bene ed elaborarli meglio.

Ed è proprio da un’elaborazione non banale dei risultati che diversi autori in modo autonomo hanno fatto venire al pettine alcuni nodi o, diciamo così “lacune”, dei concorsi enologici.

Uno dei primi ad occuparsene è stato Robert Hodgson, produttore californiano (tra l’altro pluripremiato) e professore universitario di statistica in pensione che dal 2005 al 2008 ha elaborato i dati ottenuti dai vini nel California State Fair Wine Competition, valutando la ripetibilità dei giudici nell’assaggio di campioni ripetuti e scoprendo che solo il 10% dei giudici era in grado di assegnare agli stessi campioni la stessa classe di merito (oro, argento e bronzo). Della ricerca di Hodgson ne ha parlato recentemente anche Dario Bressanini nel suo Scienza in Cucina, dove potete trovare una descrizione molto chiara del lavoro di ricerca del professore.

Ma come è ben noto i pensionati hanno moltissimo tempo a disposizione per togliersi tutti i sassolini che hanno accumulato nelle scarpe e il professor Hodgson non si è fermato qui.

Nel suo studio successivo è andato a confrontare statisticamente i risultati ottenuti da più di 4000 vini presentati in 13 diversi concorsi nazionali e internazionali che si tengono negli USA, scoprendo che l’84% dei vini presentati a più di 3 concorsi e insigniti di un riconoscimento in uno di questi, non ne riceve negli altri e che la probabilità di ricevere una medaglia d’oro in una delle competizioni è indipendente da quella di riceverne una nelle altre e di conseguenza l’assegnazione delle medaglie d’oro è fortemente influenzata dal caso.

In Italia più o meno negli stessi anni (la pubblicazione risale al 2008) se occupava Armin Kobler, produttore di Magrè (BZ) che a quel tempo era responsabile del Centro per la sperimentazione agraria e forestale di Laimburg . Dall’elaborazione dei dati ottenIuti nei concorsi enologici regionali e nazionali Kobler raggiungeva conclusioni simili a quelle ottenute da Hodgson: i giudici dei concorsi spesso davano valutazioni poco ripetibili se replicati su uno stesso campione nello stesso o in diversi set di assaggio, i risultati erano fortemente influenzati dalla posizione dei campioni all’interno dei set e dall’assaggio da parte di una commissione piuttosto che di un’altra. Come fare allora? Introducendo alcune delle regole dell’analisi sensoriale nello svolgimento degli assaggi delle commissioni dei Concorsi Enologici: randomizzando i campioni (proposti naturalmente alla cieca) in modo da dare ad ogni vino le stesse probabilità di essere assaggiato prima o dopo e da un giudice piuttosto che da un altro, introducendo dei metodi di valutazione delle perfomance dei giudici e scartando i risultati di quelli che nelle diverse giornate di assaggio non fossero soddisfacenti. Una descrizione dei suoi risultati e dei miglioramenti introdotti nei concorsi dei quali è stato organizzatore lo potete trovare direttamente sul blog di Armin Kobler.

Ma non è finita qui. Sempre nel 2008 (l’anno nero dei concorsi enologici?) un ricercatore tedesco insieme ad un neozelandese pubblicava un articolo sull’International Journal of wine Business Research dove veniva valutato se alla fine di tutto vi sia concordanza tra le scelte fatte dai giudici esperti nell’assegnazione dei premi e le scelte che farebbero indipendentemente i consumatori. Cioè se per scegliere un vino mi affido a quello che hanno detto gli esperti dandogli un premio, vuol dire che parto dal presupposto che quello che piace a loro piacerà anche a me. E invece no! Confrontato le valutazioni date a sei vini Riesling su una scala di tre intervalli (oro argento e bronzo) da una commissione di esperti e da un gruppo di 36 consumatori, i risultati hanno messo in evidenza come non sia possibile scartare l’ipotesi nulla e cioè che l’eventuale coincidenza o conformità tra le due serie di dati sia dovuta solo al caso. Segmentando i risultati dati dai diversi consudadimatori, si osservava che le distanze tra il giudizio degli esperti e quello dei consumatori si riducevano quando venivano presi in considerazione caratteristiche di questi ultimi come l’esperienza e la capacità di degustazione. Le differenze quindi sarebbero dovute al fatto che nel processo di valutazione ed elaborazione dell’informazione sensoriale di un vino da parte di un esperto entrano in gioco fattori diversi che non sempre sono presenti nel consumatore, il cui approccio è puramente edonistico. La soluzione è quella di formare il consumatore istruendolo su che cosa è buono per “chi ci capisce di più” o di abbassare lo sguardo, scendere dal piedistallo e cercare di capirlo meglio? Se c’è una cosa che non ho mai sopportato è quando, con il bicchiere in mano mi chiedono “ma questo vino è buono? No, dimmelo tu perchè io non me ne intendo mica”, l’insicurezza del consumatore che non si presenta mai, chissà perchè, di fronte ad un piatto di pasta o a una pizza e alla quale rispondo sempre “se piace a te vuol dire che è buono no?”.

La mia conclusione non è che i concorsi siano inutili e che si potrebbe anche chiuderli tutti. Nei concorsi sono presenti contemporaneamente e nelle stesse condizioni migliaia di vini e decine di degustatori, in grado di dare giudizi sintetici o analitici che siano: una situazione che manderebbe in brodo di giuggiole qualsiasi analista sensoriale o statistico (100 vini per 40 assaggiatori sono set di 4000 dati per ogni parametro analizzato, e quando ricapita?). Dati da cui trarre una enorme quantità di informazioni utili, mica solo chi vince e chi perde! La cosa importante è che anche i concorsi si rinnovino e che lascino entrare nei loro regolamenti regole e metodi più scientifici, tratti dai diversi settori, dall’analisi sensoriale e dalla consumer science (perchè per esempio non coinvolgere ogni tanto anche la casalinga di Voghera ;)?). Nel London Wine Challange ad esempio è bastato introdurre una commissione che valutasse i difetti presenti nei vini scartati (La clinica dei vini del Master of Wine Sam Harrop) per avere una fotografia dei problemi che i vini possono avere dopo l’imbottigliamento (riduzione, ossidazione, odore di tappo o carattere Brett): se vi sembra un’informazione da poco!

I lavori di Hodgson, l’arzillo statistico americano, fecero un certo rumore negli Stati Uniti al tempo della loro pubblicazione. Se ne occupò anche la stampa generalista (in Italia purtroppo, sebbene il loro peso non sia di minore importanza, non mi sembra che La Repubblica – ma nemmeno L’Adige credo – si siano occupati delle analisi fatte da Armin, cosa di cui chiedo conferma e della quale sarei contenta di essere smentita).

Lo Wall Street Journal raccolse anche le reazioni di molti addetti ai lavori, produttori, critici e wine writers. La maggior parte, compreso Robert Parker, affermò di non trovare sorprendenti i risultati di Hogdson. Joshua Green editor di Wine & Spirit aggiunse che “ sebbene i punteggi dei singoli vini siano privi di significato, la gente pensa che siano utili”. Tutti confermarono quello che fino anch’io ho premesso: facciamo tutti parte di uno stesso circo. Venghino siori, venghino!!

fonti e approfondimenti:

 

Robert T. Hodgson (2008). An Examination of Judge Reliability at a major U.S. Wine Competition. Journal of Wine Economics, 3, pp 105-113. doi:10.1017/S1931436100001152.

Robert T. Hodgson (2009). An Analysis of the Concordance Among 13 U.S. Wine Competitions. Journal of Wine Economics, 4, pp 1-9. doi:10.1017/S1931436100000638.

Robert T. Hodgson (2009). How Expert are “Expert” Wine Judges?. Journal of Wine Economics, 4, pp 233-241. doi:10.1017/S1931436100000821.

Kobler A. (2008). Limiti e possibili evoluzioni dell’analisi sensoriale quantitativa dei vini. L’Enologo, Novembre 2008, 1-8.

Jan Schiefer, Christian Fischer (2008) The gap between wine expert ratings and consumer preferences: Measures, determinants and marketing implications. International Journal of Wine Business Research, Volume: 20 Issue: 4, 2008

 

DIAMO UN TAGLIO ALLA SETE: come il vino italiano si trasforma in acqua e arriva in Kenya

Vinae - Diamo un taglio alla sete 2014. Foto di Lorenzo Burello. da www.diamountaglioallasete.org
Vinae – Diamo un taglio alla sete 2014. Foto di Lorenzo Burello. da www.diamountaglioallasete.org

Ci sono forme di innovazione che non vengono fermate dalla crisi. Ci sono forme di innovazione che in tempi di crisi nel nostro paese (ma magari anche negli altri) nascono come funghi. Ci sono forme di innovazione che forse sono sempre esistite ma che grazie alle forme di socialità e di condivisione, quelle umane e quelle in rete, riescono a diventare grandi con pochi, talvolta pochissimi, mezzi. Sono le iniziative di solidarietà e se avete sentito parlare della Miracle Machine (che non trasforma l’acqua in vino come ci avevano fatto credere in un primo momento ma il vino in acqua), oggi voglio raccontarvi una storia (un altro piccolo miracle?) tutta italiana che mi ha raccontato Luca Biffi, uno dei protagonisti.

La storia

Loro si chiamano “Fuori di sesta” e sono ex compagni di classe della Sesta Enologia (dopo la quinta negli Istituti Agrari con Specializzazione in Enologia c’è – o meglio c’era – la sesta) del 1994 dell’Istituto Agrario di Cividale del Friuli.

Oggi (forse un po’ meno “fuori” di allora) sono enologi affermati e lavorano in aziende prestigiose in tutta Italia. Un giorno del 2006 si ritrovano e pensano di fare un vino insieme, ma vino, amicizia e idee messi insieme possono dare grandi risultati e quello che doveva essere un prodotto per pochi amici, diventa un progetto di solidarietà che da allora cresce di anno in anno. Succede infatti che nello stesso 2006 i Fuori di Sesta conoscono l’opera e l’attività di Fratel Dario Laurencig, un missionario comboniano che dal 1977 opera in Kenya e in Sud Sudan e la cui attività principale è quella di scavare pozzi di acqua potabile nel deserto. Pozzi intorno ai quali nascono villaggi, scuole, centri medici..vita.

E allora il vino di pochi amici diventa Vitae e nasce il progetto Diamo un Taglio alla Sete, per raccogliere fondi da inviare a Fratel Dario e costruire pozzi.

Funziona così: ogni anno i Fuori di Sesta si ritrovano con i loro vini, li assaggiano e ne fanno un taglio (il primo anno fu un Tocai, nel 2008 un Merlot, poi è stato Vitae rosso e Vitae bianco, taglio di varietà diverse e regioni diverse). E’ questo il Taglio che si intende dare alla sete da cui viene il nome del progetto. Ogni azienda dona a titolo gratuito qualche ettolitro.

Una forma di pubblicità? Anche se non ci troverei niente di male non è così, perchè ci ho messo del bello e del buono per trovare (sul sito, sul libro che hanno pubblicato, nei comunicati stampa che colpevolmente qualche anno ho dimenticato di diramare) un elenco delle aziende dove lavorano i Fuori di Sesta e che mettono a disposizione il loro vino. Alla fine è venuta fuori una foto ripresa da un cartello dell’ultima festa di imbottigliamento. Eccola qua.

IMG_6842

Poi di anno in anno altre aziende di forniture si sono unite al progetto.

La vetreria, il fornitore di tappi in sughero e quello in tappi sintetici, lo scatolificio, lo studio grafico che ha realizzato loghi ed etichette, il centromobile di imbottigliamento (l’elenco completo lo trovate sul loro sito). Perchè tutto, dalla bottiglia, alla capsula, a i tappi, le scatole ecc ecc viene fornito gratuitamente.

Anche il vino, perchè le bottiglie di Diamo un Taglio alla Sete non sono in vendita ma vengono regalate. Non è una vendita, l’hanno chiamata Solidarietà Premiata: sarà chi riceve le bottiglie che farà poi un’offerta direttamente a Fratel Dario.

La festa dell’imbottigliamento

locandina_diamo un taglio alla sete.pdfIl momento clou del progetto è l’imbottigliamento che si tiene ogni anno una sabato o una domenica di maggio (per inciso l’annata del Vitae, nella sua qualità di Taglio non è quella della vendemmia bensì quella dell’imbottigliamento). All’inizio erano i Fuori di Sesta, i loro amici e le loro famiglie: una domenica a lavorare insieme per imbottigliare e confezionare a mano, due salsicce e la polenta (poteva mancare?).

Sabato scorso, il 17 maggio, per l’imbottigliamento del Vitae 2014 (quest’anno un bianco e un rosso) a Nimis c’erano circa 500 persone, qualcuno a lavorare, qualcuno solo a curiosare o a mangiare, tutti per contribuire e aiutare Fratel Dario.

 A proposito, i Fuori di Sesta non sono hobbisti, i vini che fanno sono roba seria e il Vitae rosso e bianco, non è da meno: anche se chi lo acquista lo fa per fare un gesto di solidarietà, la qualità del vino non lo deluderà.

E se a Cana gli invitati si lamentarono perchè il vino che venne per ultimo (quello miracolosamente ottenuto dalla trasformazione dell’acqua) era il migliore, che cosa dovremmo dire di un ottimo vino destinato ad essere trasformato in acqua?

Per maggiori informazioni sul vino, sui progetti di Fratel Dario in Africa e per contribuire potete visitare il sito: http://www.diamountaglioallasete.org/

Si fa presto a dire assaggio – parte 1: l’analisi sensoriale e la scienza.

disegno di Tommaso Eppesteinger.
disegno di Tommaso Eppesteinger.

https://www.youtube.com/watch?v=L5PykTa4U_A

L’Analisi Sensoriale è la disciplina scientifica che consente di utilizzare i sensi per valutare le caratteristiche e la qualità percepibile dei prodotti alimentari. L’Analisi Sensoriale è una disciplina complessa, ai cui metodi concorrono scienze diversissime, la fisiologia dei sensi, la psicologia, la tecnologia alimentare e l’enologia, la statistica. Questo perchè lo strumento analitico che viene utilizzato, l’essere umano, è uno strumento molto complesso, anzi direi il più complesso.

L’analisi sensoriale viene utilizzata per classificare, descrivere e discriminare cibi e bevande di ogni tipo. La utilizzano le aziende (generalmente le grandi aziende alimentari) per capire i gusti del consumatore e definire i profili organolettici di riferimento. La utilizzano gli scienziati per mettere a punto nuovi prodotti e per comprendere i meccanismi della percezione e della piacevolezza.

Ad essere precisi nel settore enologico la utilizzano soprattutto gli scienziati per valutare in modo misurabile l’influenza dell’innovazione e delle sperimentazioni viticole ed enologiche sul profilo organolettico dei vini.

Difficilmente invece il metodo scientifico viene applicato dagli esperti o nei concorsi dove vengono date delle valutazioni di qualità o di piacevolezza assoluta che dovrebbero, negli intenti fare da guida al consumatore. Perchè?

Lo so l’argomento è vasto e spinoso e quindi lo suddividerò nelle seguenti puntate:

1- L’Analisi sensoriale – usare i sensi come strumenti.

2 – Esperti, degustatori e Concorsi enologici.

E infine, come accade anche nelle migliori famiglie spuntano i poteri magici e quindi nella terza parte si parlerà di:

3- Maghi e supereroi.

Per quanto sia cosciente che la parte più attesa sia l’ultima mi dovete scusare se comincio con una dissertazione didattico-scientifica semiseria su che cos’è, cosa fa e come si svolge l’analisi sensoriale. Del resto non sarebbe possibile spiegare la fantascienza se prima non si sono date delle informazioni sulla scienza.

L’analisi sensoriale: usare i sensi come strumenti

Lo abbiamo detto nella premessa: l’analisi sensoriale è una disciplina molto complessa perchè utilizza lo strumento più complesso che possa esistere: l’uomo.

I sensi, gusto, olfatto, vista e tatto, utilizzati nella valutazione organolettica degli alimenti (e in alcuni casi potremmo aggiungere l’udito) sono strumenti estremamente sensibili, in grado di percepire sfumature, variazioni e interazioni spesso estremamente piccole.

Il problema sta nel fatto che la capacità di questi strumenti di dare una valutazione, sia essa qualitativa o quantitativa, è assai poco ripetibile, molto influenzabile da diversi fattori (lo stato di salute, l’umore, l’ora del giorno, l’ambiente circostante ecc) e scarsamente riproducibile.

Potremmo pensare ai nostri sensi come ad uno strumento con una parte hardware data dai recettori (le cellule olfattive, le papille gustative, la retina) e una parte software data dalle aree celebrali che elaborano le informazioni. Ecco anche se i nostri sensori fossero precisi e ripetibili (ma non lo sono, avete provato ad assaggiare un vino quando siete raffreddati?), la parte software potrebbe dare risposte completamente diverse a seconda dei soggetti e per uno stesso stimolo.

Poiché tuttavia gli alimenti hanno il fine ultimo di essere scelti, valutati e consumati attraverso il giudizio dei sensi, nella maggior parte dei casi la valutazione sensoriale è uno strumento di analisi insostituibile e quindi la scienza sensoriale ha dovuto trovare una soluzione a queste fallanze umane.

La risposta la da la statistica: se la risposta di un singolo soggetto non è riproducibile perchè non usare un gruppo di soggetti, addestrarli a dare risposte omogenee per stimoli simili e quindi considerare il risultato come l’elaborazione delle risposte del gruppo anzichè la risposta di un singolo?

Questo gruppo si chiama Panel, i partecipanti-strumenti si chiamano giudici e vengono addestrati da un tipo che si chiama Panel Leader. In alcune occasioni nella vita sono stata un Panel Leader per cui vi posso raccontare cosa accade nella creazione di un Panel.

La prima fase è la selezione del Panel, nella quale si cerca di coinvolgere e valutare le capacità sensoriali degli aspiranti giudici, un po’ come accade a The Voice o a X-Factor.

Il lavoro di un Panel, che a descriverlo potrebbe sembrare interessante, in realtà è molto faticoso e a tratti abbastanza noioso. E’ per questo che mantenere attivo e funzionante un Panel è molto difficile e anche costoso.

All’inizio, nelle fasi di addestramento i giudici e gli aspiranti giudici partecipano con entusiasmo. Stanno imparando ad usare i sensi e prendono per la maggior parte la cosa molto sul serio. Li vedi tutti contenti, ti chiedono i loro risultati, non vedono l’ora che ci sia l’incontro successivo.

Poi, soprattutto quando sono chiamati a valutare vini ottenuti da tecniche viticole o enologiche diverse per cui le differenze tra i campioni possono essere minime (o anche non esserci), cominciano a ridurre il loro entusiasmo e sempre più spesso sono trattenuti da impegni di lavoro.

Anche perchè, diciamocelo, sono assaggi che ti spendi anche difficilmente in società. Una frase del tipo “Oggi ho assaggiato un defogliato precoce che era la fine del mondo” non fa poi un grande effetto.

E quindi alla fine restano solo quelli veramente motivati e più spesso quelli obbligati a continuare (i tesisti che senza i risultati non si laureano o i borsisti e dottorandi).

Ovviamente sto scherzando ma vi do un consiglio: se volete imparare ad assaggiare per fare colpo iscrivetevi ad un corso per Sommelier, se invece volete donare i vostri organi alla Scienza, senza per questo finire sul tavolo di un’aula di anatomia (o anche solo prima) partecipate come giudici ad un Panel di Analisi Sensoriale. La Scienza Sensoriale ve ne sarà eternamente grata.

Una volta terminato l’addestramento, nel quale i giudici imparano a riconoscere gli stimoli sensoriali e dare loro un nome e ad utilizzare le scale con le quali misurarli si può cominciare a lavorare.

I nomi degli stimoli sensoriali si chiamano descrittori e un grosso lavoro del panel leader consiste nel mettere d’accordo i giudici sul nome da dare ad ogni singolo carattere. Ecco perchè a differenza di quanto fa un sommelier (che non dico sbagli ma fa un altro lavoro), nel lavoro di un sensorialista chiamare una singola sensazione con dieci nomi diversi non fa effetto, fa casino.

Ognuno di noi però associa ad uno stesso stimolo etichette diverse, legate alla propria esperienzae quando si lavora in gruppo occorre rimettere a posto tutti i nomi dei files.

In questa impresa può essere di grande aiuto un lavoro fatto da qualche anno fa da Ann Noble, dell’università di Davis in California, probabilmente uno degli scienziati più attivi e produttivi nell’analisi sensoriale del vino, che ha raccolto, classificato e visualizzato in quella che oggi chiamiamo un’infografica di successo tutti i possibili descrittori aromatici del vino. La ruota degli aromi e il suo utilizzo viene spiegato dalla professoressa Noble in questo video molto interessante sul sito www.winearomawheel.com (dove se volete potete anche comprare un maglietta, una tazza o un poster con il nostro grafico…ah questi americani!).

Ann Noble e la sua Ruota degli aromi

Più tardi (2000) Richard Gawel in Australia ha fatto un lavoro simile con i tutti i descrittori utilizzati per descrivere sensazioni diverse di astringenza dei vini rossi.

La ruota delle sensazioni gustative dei vini rossi di Richard Gawel (2000)
La ruota delle sensazioni gustative dei vini rossi di Richard Gawel (2000)

Ma non è finita. I giudici in realtà non devono giudicare ma misurare. Quando abbiamo di fronte la scheda di un test descrittivo (che poi vi dirò cos’è) non dobbiamo dire che è molto fruttato e quindi buono o molto ossidato e quindi cattivo, ma solo quanto è fruttato e quanto è ossidato. E’ necessario essere il più possibile analitici perchè qualsiasi valutazione di merito o di demerito dovuta ad un singolo descrittore va ad influenzare il giudizio che potremmo dare di ogni altro descrittore.

E questo è molto difficile perchè anche la valutazione di carattere positivo o negativo è legata alla nostra esperienza, più o meno recente (per molti di noi gli aromi di un periodo generalmente felice come l’infanzia sono buoni, anche se si tratta della cipolla della cucina della nonna o dell’odore della stalla del vicino). Per esempio è difficile (ma anche divertente) mettere insieme nello stesso panel enologi e persone qualunque, oppure persone di diverse età (in realtà è sempre consigliabile che un panel sia formato da persone eterogenee per età e sesso).

Praticamente nelle istruzioni date dal panel leader, oltre all’indicazione di non fumare, non usare profumi, non consumare cibi piccanti prima dell’assaggio, dovrebbe esserci un bel “si prega di depositare la vostra intelligenza emotiva al guardaroba insieme al casco) ma ovviamente non è possibile.

Diversi test, diverse risposte

Esistono diversi tipi di test con i quali si possono caratterizzare, distinguere e descrivere dei vini.

I più complessi sono i test quantitativi o descrittivi nei quali, identificati una serie di descrittori utili per descrivere un determinato prodotto il panel ha l’obiettivo di dire in quale misura ogni sensazione è presente in quel vino.

Il risultato è un profilo sensoriale e può essere visualizzato in vario modo. La grafica più frequente è quella del grafico a ragnatela. Quando l’obiettivo è definire le differenze tra più vini è l’analisi statistica che dice, applicando test di diversa natura, se i campioni per ogni descrittore si possono considerare diversi o meno. Mettiamo ad esempio il carattere fruttato: se la media delle risposte per il vino 1 è 8 e per il vino 2 è 10 sarà solo lo studio statistico della dispersione delle risposte dei diversi giudici a dirci se 8 è diverso da 10 e il vino 1 è meno fruttato del vino 2.

I test meno complessi sono i test qualitativi o di differenza. Uno di questi, di cui molti avranno sentito parlare è il test triangolare e serve a capire se due vini sono diversi. Il giudice riceve tre bicchieri in due dei quali c’è lo stesso vino mentre nel terzo c’è l’altro e deve dire quale è il vino diverso. A seconda delle risposte corrette e con l’applicazione come sempre di un test statistico è possibile dire se i due vini si possono dichiarare diversi da punto di vista sensoriale (con una probabilità del 95 o del 99%) o no.

Infine ci sono i test di preferenza e quelli di ordinamento: il giudice può recuperare il suo cervello giudicante dal guardaroba e dare una scala di giudizio o ordinare i campioni sulla base di un carattere o della piacevolezza.

Last but not least: i campioni

Me li sono lasciati per ultimi non perchè me li fossi dimenticati ma perchè saranno importanti da tenere a mente quando parleremo di concorsi, guide e supereroi:

Punto numero 1: in analisi sensoriale tutti i campioni sono anonimi e tutti gli assaggi sono alla cieca. Il panel leader assegna ad ogni campione un codice assolutamente privo di significato (io passai alle tre cifre casuali perchè dopo che casualmente era spuntato un PDL le tre lettere a volte potevano risultare troppo evocative).

E punto numero due:

l’ordine di assaggio è randomizzato: ogni giudice riceve i campioni in un ordine diverso dagli altri giudici. Questo accorgimento non serve (solo) per evitare che i giudici copino dal loro vicino, ma soprattutto perchè la maggior parte degli stimoli sensoriali provocano un affaticamento dei nostri sensi e perchè esiste un effetto di trascinamento per cui alcuni caratteri come l’astringenza vanno a sommarsi campione dopo campione.

Fate un esperimento: prendete un vino rosso e un amico. Mettetegli davanti sei bicchieri contenenti lo stesso vino con sei codici e ditegli che assaggerà sei vini diversi (raccontategli un po’ quello che volete). Poi fatelo assaggiare e chiedetegli quale vino ha sentito più astringente. Scommettiamo che non dirà il primo?

Il motivo è che i recettori gustativi e quelli olfattivi si saturano e hanno bisogno di un certo tempo per poter ricevere un secondo stimolo. Nell’ astringenza invece la sensazione tattile è legata alla precipitazione delle proteine della saliva che lubrificano la bocca a causa dell’azione dei tannini del vino: a seconda della quantità di tannini e anche del grado di lubrificazione della cavità orale di ogni soggetto, fino a quando non si forma altra saliva e non si allontanano i complessi proteina-tannino precipitati, la sensazione non potrà che aumentare di intensità. Ci vuole tempo e un numero ragionevole di campioni per ogni sessione di vini assaggiati (5-6).

Tutto questo serve (non garantisce di riuscirci ma fa del suo meglio) per rendere il più possibile oggettiva l’espressione di una grandezza data da un soggetto e quindi affetta da soggettività: un metodo basato sulla conoscenza della fisiologia dei sensi e sui meccanismi mentali della percezione, una scala, delle regole, un gruppo addestrato, un’elaborazione statistica, un’espressione di risultati in termini di probabilità. Troppo complicato? Vabbè, non siamo mica qui a pettinare le bambole!

Alla prossima.

 

 

I disegni di questa serie di articoli sono di Tommaso Eppesteinger, carissimo amico, vignettista e artista livornese.

L’onda lunga dei veleni (verbali) di Velenitaly

velenitalyIl giornalismo urlato e allarmistico nelle edicole di tutta Italia va bene, la revisione dei fatti e la critica della stampa specializzata no. E così il caso giornalistico (non quello delle condanne per frode alimentare che ha seguito il suo giusto corso) del Velenitaly del 2008 sbattuto in prima pagina da L’Espresso, si chiude con una condanna. Non per procurato allarme nei confronti di chi aveva creato un caso mediatico confondendo i fatti ma per chi con competenza aveva cercato di fare chiarezza.

Maurizio Gily, direttore del periodico Millevigne, è stato condannato da un ad un’ammenda di 5000 Euro come risarcimento per aver leso la reputazione del giornalista autore dell’articolo pubblicato sull’Espresso (il quale dell’articolo di Millevigne si è accorto dopo 3 anni a riflettori ormai spenti). Reputazione lesa, a detta del giudice per mancanza di “continenza” verbale che sarebbe sfociata secondo la sentenza in un attacco personale. Nessun riferimento all’esposizione distorta dei casi o al procurato allarme prodotto da quanto esposto nell’articolo di partenza. Pur riconoscendo la correttezza di quanto riportato da Gily il giudice del Tribunale di Rovereto dice: “Lei ha ragione ma tra colleghi si usino solo parole gentili, lei invece è un incontinente verbale e io la metto in castigo”..

Quello che aveva fatto Gily non era altro che quello che nei paesi civili, quelli in cima alle classifiche che ordinano i paesi sulla base della libertà di stampa (dove l’Italia si trova ahimè al 57° posto) chiamano fact checking, o controllo dei fatti. Nei paesi anglosassoni il fact checking avviene addirittura all’interno delle stesse redazioni e tutela testate e giornalisti dal far uscire baggianate: personale retribuito dal giornale che verifica e corregge le notizie prima che escano, praticamente una chimera per la stampa italiana. E’ per questo che su una notizia del NY Times o sul The Guardian si può mettere la mano sul fuoco.

Ci sono paesi dove chi fa fact-checking viene retribuito. In Italia viene condannato dai giudici.

Per chi non ricordasse: i fatti di quel Velenitaly 2008

Velenitaly è stato un caso da manuale per la categoria del cattivo giornalismo (e spero che cattivo sia termine “continente”): c’era il caso reale riportato della frode e dell’inchiesta (anzi di più di una frode), c’era l’allarme creato confondendo il significato di frode, sofisticazione e sicurezza alimentare e c’era nell’esplosione del caso in concomitanza del Vinitaly tutta la brutalità del principio della notiziabilità.

Per chi non se lo ricordasse la notizia trattava dell’inchiesta su grosso un caso di sofisticazione di vini di bassa gamma (si parlava di annacquamento, di aggiunta di zucchero e acidi forti come l’acido cloridrico oltre che di non meglio specificati fertilizzanti e agenti cancerogeni). La condanna da parte del noto settimanale era ovviamente cosa giusta così come i successivi provvedimenti presi dalla magistratura.

Quello che creò allarme e esplose come una bomba sul settore viticolo italiano furono i toni allarmistici dei titoli e dell’articolo, il continuo riferimento al rischio per la salute del consumatore e alla presenza di veleni nonché la richiesta agli organi competenti di rendere noti nomi ed etichette a tutela della salute del consumatore, richiamando lo spettro presente in tutti noi del vino al metanolo.

In realtà di frode e sofisticazione si trattava e come tale doveva essere punita, ma non tutte le frodi sono pericolose per la salute del consumatore e dei veleni ai quali si faceva continuo riferimento a partire dal titolo non era in realtà stata trovata alcuna traccia.

Anche il momento per il mensile fu quello giusto. Il caso (anzi i casi perchè sullo stesso numero del mensile era uscito anche il caso Brunellopoli, un’altra brutta storia per il mondo del vino) fu tenuto in caldo fino a quando tutto il mondo enoico (e anche quello che in genere vive al suo margine) stava guardando al vino italiano e cioè nella settimana del Vinitaly. E’ così che due bombe e un titolo ancora più esplosivo diventano La Notizia con la N maiuscola. Visto da fuori sembra brutto, da dentro lo è ancora di più, magari crea un danno terribile a un settore, ma come direbbe Humphrey Bogart “è la stampa bellezza”, funziona così non ci si può fare nulla.

Ma sulla realtà e la correttezza dei fatti riportati invece qualcosa di dovrebbe poter fare e soprattutto poter dire, no?

Cui prodest?

La sentenza del Tribunale di Rovereto mette di nuovo sotto i riflettori il rapporto della Giustizia Italiana con la Scienza e con l’Informazione. Viene in mente la sentenza del TAR del Lazio che sospende il parere degli scienziati su Stamina. Viene in mente il Tribunale di Rimini che riporta tra le motivazioni della richiesta di indennizzo dei genitori di un bambino con disturbi neurologici al Ministero della Salute, una delle frodi scientifiche più clamorose dgli ultimi anni, quella secondo la quale i vaccini sarebbero causa dell’autismo.

Perchè in Italia non ci si rivolge mai a dei veri esperti? Perchè il parere della comunità scientifica e la realtà dei fatti con l’opinione espressa dagli esperti e dai professionisti contano così poco per i giudici italiani?

Perchè anche i giornalisti generalisti o quelli di inchiesta si rivolgono sempre alle persone sbagliate per avere dei pareri tecnici? Perchè una cosa o è un veleno o non lo è. Se un prodotto è cancerogeno ci sarà uno straccio di ricerca che lo ha dimostrato, non si scrive che qualsiasi cosa non ammessa sia tossica o anche cancerogena così per aggiungere un po’ di pepe al discorso.

E in Italia professionisti seri o scienziati ce ne sono tanti, ai quali il giornalista di Velenitaly si poteva rivolgere prima di scrivere cose sbagliate come ha fatto (e come in molti anche sulla sua stessa testata hanno già ampiamente discusso e dimostrato). Come fanno al Times ad esempio.

E sarà paradossale ma uno di quelli in Italia che gli avrebbe spiegato meglio come stavano le cose senza entrare in quest ginepraio sarebbe tanto per citarne uno.. Maurizio Gily.

Il quale sullo stesso Blog di Millevigne commenta oggi la sentenza che l’ha condannato “Evidentemente la verità in Italia va detta con moderazione. Pardon, con continenza. Soprattutto quando si vanno a toccare aziende, gruppi e persone con le spalle più larghe delle vostre.  Come Millevigne contro Espresso- Repubblica: una pulce contro un carro armato.
Le sentenze si rispettano, ed io la rispetto. Non ho ancora deciso se presentare ricorso in appello. I legali me lo consigliano. Ciò che vedo in giro, ad esempio certe sentenze in cui dei giudici decidono su argomenti che conoscono poco, con esiti sbalorditivi (vedi caso Stamina), me lo sconsigliano. “

Nel primo “compito” di giornalismo scientifico che mi fu assegnato parlai proprio del modo in cui l’agroalimentare sale agli onori delle cronache purtroppo soltanto in occasione dei casi di frodi o di allerta alimentare e del modo allarmistico e privo di fondamento e informazione scientifica con il quale queste notizie vengono trattate, facendo molto raramente ricorso all’opinione di veri esperti e scienziati. E scelsi come case history la storia di Velenitaly. Era un testo sul tema: “La scienza è rappresentata in modo positivo sui media?” Per la cronaca presi un sei scarso: non avevo usato un linguaggio sufficientemente giornalistico.

Oggi vorrei fare un altro tema “La scienza e la professionalità sono considerate in modo positivo dalla giustizia?”. Materiale se ne trova a bizzeffe, magari un sette meno lo rimedierei.

Il vino nell’argilla: ritorno al futuro o tuffo nel passato?

Sto partecipando ad un “gioco” che potremmo chiamare di Social Tasting e che già di per sé sa di innovazione. Funziona così: martedì prossimo, 15 ottobre, a Rubbia al Colle la tenuta toscana dei fratelli Muratori si parlerà di Vino e Argilla, e cioè della nuova tendenza di utilizzare, come nel passato, contenitori in argilla nella vinificazione o nell’affinamento dei vini. Il programma della giornata lo trovate descritto in questo video.

IMMAGINE RITORNO ALL'ARGILLA

Michela Muratori ha coinvolto un panel virtuale formato un gruppo di blogger, giornalisti e assaggiatori presenti sul web e sui social media, inviando loro due bottiglie di Sangiovese, il Vigna Usilio, affinato in legno e il Barricoccio, il vino di Rubbia al Colle affinato in contenitori in terracotta dalla forma delle barrique, i barriccocci appunto.

Lo scopo non è tanto quello di confrontare i due vini (che sarebbero comunque diversi per annata, vigna di provenienza, vinificazione e gradazione alcolica) bensì quello di valutare rispetto ad un vino diciamo della tradizione enologica moderna (affinato in legno), se l’affinamento in terracotta sia in grado di conferire delle caratteristiche riconoscibili, nuove e apprezzate.

Il “giochino”, come l’ho interpretato io poi, è quello di prendere spunto dall’assaggio per riflettere su un’altra domanda: perchè reintrodurre la terracotta nelle cantine?

È un’innovazione oppure è solo una nostalgica voglia di ritorno al passato come la riscoperta di tante altre pratiche o l’abbandono di altre che sta andando tanto di moda?

Inizio quindi con l’assaggio e poi dato che siamo su un blog che parla di scienza e di innovazione, vestirò come sempre i panni dell’avvocato, pardon, dello scienziato del diavolo, avanzando i miei dubbi soprattutto tecnologici sull’uso della terracotta, ai quali in parte cercherò risposta nelle testimonianze dei produttori che hanno intrapreso questa strada, martedì a Rubbia al Colle, e in parte dagli scienziati che nei prossimi anni spero vorranno occuparsi di questo fenomeno.

L’assaggio

Argilla Vs legno - Barriccoccio Vs Vigna Usilio
Argilla Vs legno – Barriccoccio Vs Vigna Usilio

Non è un confronto, l’ho già detto, ma le differenze date da tecniche diverse di affinamento sono molto evidenti.

Il Vigna Usilio possiede tutti quei caratteri che negli ultimi anni hanno fatto grandi i Sangiovesi toscani nel mondo, fruttato quanto basta, note di sottobosco, volume e morbidezza dei tannini. Et voilat ecco a voi la toscanità.

Lo so, molti inorridiscono quando sentono parlare di innovazione di prodotto nel mondo del vino, ma anche i vini cambiano, come cambiano le persone che li bevono, e dal mio punto di vista, senza abbandonare gli ormai collaudati Vigna Usilio, che in fondo ci piacciono e ai quali nessuno toglie meriti, dall’enologia Toscana sarebbe forse ora che nascesse anche qualcosa di nuovo e il Baricoccio è la prova che senza andare a cercare lontano il Sangiovese, interpretato in modo diverso, possa rappresentare questa opportunità.

Perchè il Barriccoccio è un vino profumato, che sa di uva e di ciliegie e che in bocca resta un po’ nervoso e astringente, caratteri che anche i consumatori cominciano ad apprezzare senza più cercare la morbidezza a tutti i costi.

E la cosa più apprezzabile è che quei profumi sono ovviamente quelli del Sangiovese che cresce nei vigneti di Suvereto e non altrove. Un Barricoccio fatto su altri terreni e in altre condizioni di coltivazione in Toscana sarebbe probabilmente molto diverso. Una nuova interpretazione del Sangiovese e del suo territorio che tra l’altro, mi piace dirlo, viene da una zona anch’essa nuova, della Toscana “non classica”. Un vino nuovo “diversamente toscano”. Ecco nuovo, l’ho detto.

Una storia affascinante, ma non è archeologia sperimentale

Nell’uso dei contenutori di argilla, i vini, se si distinguono per le loro caratteristiche come fa il Barricoccio, si possono considerare un prodotto innovativo. Ma l’argilla no, lei per piacere non la chiamate materiale innovativo. Prima di tutto perchè nella scienza dei materiali innovativi a me viene in mente il grafene e non il cotto. Poi perchè è forse solo per il suo legame con la tradizione e per la sua storia che la si sta riscoprendo; è per il fascino e il richiamo al passato che alcuni produttori l’hanno riproposta, associandola talvolta (ma non sempre) a pratiche enologiche anch’esse arcaiche o che guardano ai “bei tempi antichi” (quando i mulini erano bianchi).

Effettivamente l’appeal del richiamo a tecniche di produzione che fanno parte delle nostre tradizioni fin dalla storia antica è forte.

La terracotta è il materiale che già ai tempi dei Romani e degli Etruschi veniva utilizzata per il trasporto e la conservazione del vino e che in alcune regioni del bacino del Mediterraneo ha continuato ad essere utilizzata anche nei secoli successivi, fino anche ai giorni nostri nei paesi balcanici come la Georgia.

La terracotta è un materiale dalle notevoli proprietà termiche e, verniciata o vetrificata, è stata utilizzata fino a tempi recenti nella conservazione e nella preparazione dei cibi anche in Italia, si pensi agli orci per l’olio o alle pentole e il vasellame di coccio, come si dice in Toscana.

Il legno invece è venuto da fuori, dalle regioni del Nord Europa. Furono i Galli a insegnare ai nostri produttori ad utilizzarlo anche nella conservazione dei vini. O meglio, per essere più precisi gli Etruschi e poi i Romani insegnarono ai predecessori dei Francesi a fare il vino e loro gli vendettero le botti..

In Italia però nei secoli passati la tecnica di conservazione del vino nelle botti di legno era stata personalizzata (ci eravamo affrancati dal dover comprare le botti in Francia e ce le facevamo saggiamente da soli), con la costruzione di grandi botti principalmente in legno di castagno, perchè qui le foreste di quercia scarseggiavano anche in passato.

Poi nel Novecento sono arrivate le barrique, piccole botti in legno di rovere con diversa tostatura e in grado di conferire ai vini caratteri diversi (anche aromatici) e il vino e le varietà italiane hanno subito forse la contaminazione culturale maggiore. E a quel punto del legno francese non abbiamo più potuto farne a meno.

Quindi dal punto di vista storico e culturale la riscoperta dei contenitori in argilla, materiale che fa parte delle nostre radici molto più dell’uso della barrique ha un suo perchè.

C’è da dire però che tra le tantissime cose che non sappiamo degli Etruschi ci sono anche le caratteristiche dei loro vini. E se è vero che sono loro ad avere insegnato ai Romani (che invece hanno lasciato traccia descrivendo ampiamente come preparavano i loro vini o intrugli), penserei che probabilmente questi non possano rappresentare un modello per i nostri palati di uomini e donne del 21° secolo.

C’è da dire anche che i nuovi vini fermentati o affinati nei contenitori di terracotta sono comunque prodotti commerciali: non stiamo facendo un esperimento di archeologia sperimentale.

C’è da dire infine che i nostri antenati, che erano forse meno scientifici di noi ma che generalmente erano dotati di molto buonsenso, quando i Galli e poi i Francesi gli proposero le loro botti di legno, le preferirono alle anfore che furono invece abbandonate. Ci sarà stato un motivo no? Su prodotti come l’olio ad esempio gli orci in terracotta (rivestiti internamente) hanno continuato ad essere utilizzati molto più a lungo, probabilmente perchè per l’olio che teme estremamente l’ossigeno e le variazioni di temperatura, fino all’arrivo dell’acciaio non si è trovato un degno sostituto.

Grezza o vetrificata?

E ora veniamo agli aspetti tecnologi, quelli sui quali ormai, forse lo avete capito, non perdono.

Ci sono due aspetti che mi lasciano perplessa nell’uso dei contenitori in terracotta: la permeabilità all’ossigeno e la possibilità di sanificazione e pulizia.

E su questo occorre fare una distinzione perchè è soprattutto l’uso di contenitori di terracotta allo stato grezzo cioè non rivestita o vetrificata internamente, come è il barricoccio, a destare le mie perplessità.

SONY DSC
i Barricocci di Rubbia al Colle

Per la terracotta rivestita da materiali per lo più impermeabili all’ossigeno, vernici adatte al contatto con gli alimenti come avviene nelle vasche in cemento, gli eventuali problemi di ossidazione o le difficoltà di pulizia sono pressochè risolti. Semmai mi verrebbe da chiedere se gli stessi risultati qualitativi non si possano raggiungere con un affinamento in piccole vasche in cemento, materiale con simili proprietà di isolamento termico. E la risposta che mi do da sola è che forse se così fosse probabilmente martedì ce ne resteremmo tutti a casa nostra (perchè cosa ci sarebbe di nuovo?).

Alcuni produttori utilizzano la cera d’api per rivestire internamente gli orci in terracotta, per il falso principio che ciò che naturale è buono e sano. Ora la cera, probabilmente risolve il problema della permeabilità all’ossigeno ma non è neutra (per esempio cede al vino sapori o odori?) e sicuramente non facilita la pulizia e la sanificazione (non ne ho esperienza ma dubito che si possa utilizzare il vapore per pulire le anfore rivestite con la cera, no?).

Tornando alla terracotta grezza i dubbi sono molti.

La prima cosa che mi viene in mente è il ricordo della bagarre che si alzò quando con l’introduzione della lista positiva dei materiali adatti al contatto con i prodotti alimentari nel Regolamento Europeo relativo all’HACCP, furono escluse le vasche in marmo utilizzate nella produzione del lardo di colonnata. Lo stesso legno delle botti e delle barrique, in quanto materiale poroso, cedente alcuni composti e non inerte, passò l’esame per il rotto della cuffia. E va bene, convengo che se fosse per la Comunità Europea in fatto di alimenti l’acciaio potrebbe andare a sostituire qualunque altro materiale e al diavolo le tradizioni. Però quando si parla di alimenti e di rischio occorre essere molto seri. E quindi come stiamo con la terracotta non trattata internamente a questo riguardo?

La terracotta grezza in quanto materiale poroso è difficilmente igienizzabile, anche perchè le anfore hanno forme poco ispezionabili.

La sostanza organica e i micro-organismi presenti nel vino che imbibisce la parete del contenitore facilmente restano lì anche dopo che il vino è stato rimosso e se non vengono eliminati efficacemente (ma come si fa a raggiungerli?) sono dei potenziali contaminanti per i vini con i quali verranno a contatto successivamente. Quindi occorre studiare dei sistemi efficaci di sanificazione di questi contenitori, esattamente come è accaduto per il legno: per esempio si può utilizzare il vapore? è stato valutato l’uso dell’ozono?

La porosità poi rende la terracotta del tutto permeabile all’aria e all’ossigeno atmosferico, molto più del legno. Quanto ossigeno permea attraverso le pareti dei contenitori in terracotta? Nel caso del legno il fenomeno è stato ampiamente studiato e il livello di intake è equivalente all’ossigeno che il vino consuma nei suoi processi di evoluzione dei composti polifenolici e di stabilizzazione del colore. I vini cioè, soprattutto i vini rossi, sono in grado di consumare ossigeno per via chimica durante l’affinamento e lo utilizzano in alcuni processi ossidativi lenti e progressivi, nei quali il colore si stabilizza (i pigmenti rossi si combinano con i tannini estratti dall’uva per divenire meno sensibili alle ossidazioni) e i caratteri di astringenza si evolvono verso quelle caratteristiche che chiamiamo di morbidezza dei tannini.

Se però l’ossigeno è troppo, il vino si ossida e compaiono i caratteri tipici del difetto di ossidazione.

Ora ci sarà sicuramente chi sosterrà che anche la definizione di difetto è soggettiva o peggio è un’invenzione degli enologi e che l’ossidazione potrebbe essere un carattere di tipicità del nuovo eldorado enologico dei vini naturali.

Ok, sia pure (se trovate persone che li apprezzano), ma teniamo sempre conto di una cosa: i difetti (tutti) sono quanto di più omologante possa esistere e i caratteri di ossidazione (la mela stramatura, lo svanito ecc ecc) sono gli stessi su tutti i vini. Che si facciano pure “vini naturalmente ossidati” ma allora dimentichiamoci la tipicità.

Le risposte nella ricerca

E la terracotta vetrificata o verniciata diventa del tutto impermeabile all’ossigeno? E allora come favorire i processi di stabilizzazione del colore e di evoluzione dei composti polifenolici nei vini rossi o anche solo come evitare gli stati di riduzione? I vini conservati in questi contenitori, che come abbiamo verificato assaggiando il Barriccoccio, conservano i loro caratteri di gioventù, come si sono evoluti, cioè cosa ha fatto la terracotta per loro? Erano molto diversi quando erano giovani davvero?

Eccolo il disegno sperimentale che risolverebbe i miei dubbi:

Testimone: vino conservato in acciaio

Tesi1: vino in vasca di cemento di piccola taglia

Tesi 2: vino in cemento di piccola taglia micro-ossigenato

Tesi 3: vino in anfora di terracotta non trattata.

Tesi 4: vino in anfora di terracotta vetrificata

Tesi 5: vino in anfora di terracotta vetrificata con micro-ossigenazione

 Qualcuno lo ha già fatto? Qualcuno lo vuole fare? Io ci sto.

OGM …OMG (Oh My God)!

OMG, oh my God, retro style woman

Lo devo fare, da un paio di anni continuo ad accumulare materiale sulla questione OGM, sulla loro comunicazione e sul dibattito in corso, intanto gli eventi si accavallano, le discussioni riprendono e io continuo ad accumulare aspettando il momento giusto per parlarne. Lo so, il momento giusto era un paio di mesi fa e non riuscirò nemmeno ad usare tutto il materiale che ho raccolto. E c’è anche un sacco di gente che ne ha parlato prima di me (ma più siamo meglio è no?). E non riuscirò nemmeno ad essere dettagliata nelle risposte a tante domande come si converrebbe ad un Blog di divulgazione scientifica. Ma da qualche parte dovrò pur cominciare no?

Tempo fa un’amica postò su Facebook la foto di un bel tipo con scritto OMG. “Se significa Organismo Modificato Geneticamente, non so come fosse prima ma hanno fatto delle ottime modifiche”, commentai.

Le biotecnologie ovviamente in quel caso non c’entravano (magari la chirurgia estetica sì) ma il gioco di parole funzionava, perchè in realtà sebbene nessuno ne parli e gli argomenti continuino da anni ad essere sempre gli stessi, nel campo degli OGM esistono delle ottime modifiche.

Negli ultimi trent’anni (Nature ha dedicato uno speciale ai 30 anni di ricerca nel campo delle piante transgeniche) sono state ottenute piante con caratteristiche molto interessanti: con rese maggiori, con geni di resistenza ad ambienti ostili e a patogeni in grado di ridurre la necessità di fertilizzanti chimici e pesticidi (insetticidi, antifungini e antibiotici). Piante in grado di migliorare le condizioni di coltivazione anche nei paesi più poveri, di aiutare a risolvere una crisi alimentare che con la crescita demografica si sta presentando sempre più impellente, e di ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura sul nostro pianeta.

Alcuni esempi li trovate qui:

 http://www.nature.com/news/specials/gmcrops/index.html

http://www.almanacco.cnr.it/reader/ArchivioTematico_tema.html?MIval=cw_usr_view_articolo.html&id_articolo=3712&id_rub=32&giornale=3663

http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=1044

Cosa succede

Il problema è che periodicamente il dibattito si ripropone ma gli argomenti sono sempre gli stessi. La questione Ogm è entrata in un loop dalla quale ormai fatica ad uscire. Non sono ottimista, in questi ultimi anni ho seguito la questione OGM come caso di comunicazione di una controversia scientifica e ho quasi concluso che la battaglia, non per coltivare OGM, ma per far valere le ragioni della scienza o anche solo per stabilire un dibattito paritario e dare ai cittadini gli strumenti per inserirsi nella discussione, sia persa.

Troppi errori sono stati fatti nel passato e continuano ad essere fatti nel presente e tutti hanno sbagliato qualcosa. Hanno sbagliato gli scienziati che non sono scesi in campo a presentare il loro lavoro alle prime avvisaglie di una controversia squilibrata che metteva irrimediabilmente la scienza dalla parte del Male, ma anche a pensare che basti spiegare al pubblico che cosa sono gli OGM per ricevere la sua approvazione incondizionata. Hanno sbagliato le imprese che hanno investito nelle nuove tecnologie senza pensare di doversi spiegare con altri attori e hanno dato adito a sospetti (magari anche fondati) di voler nascondere qualcosa. Hanno sbagliato i comunicatori che si sono fermati ad ascoltare solo una voce (quella più forte dal punto di vista comunicativo e politico) senza approfondire e senza capire. Hanno sbagliato i decisori che si sono rivolti e si rivolgono agli attori sbagliati e mai agli scienziati. Hanno sbagliato tutti quelli che hanno scambiato l’introduzione di una nuova tecnologia di miglioramento genetico delle piante con una questione di etica di mercato. E hanno sbagliato tutti quelli (tra i quali anche i decisori) che hanno pensato che tutti i detrattori degli OGM (le organizzazioni agricole, la GDO, le ONG) fossero mossi solo dall’interesse del bene dei consumatori e non da interessi di parte e non è così.

Perchè gli OGM sono diventati per l’opinione pubblica e per i suoi detrattori il simbolo del male? Il problema è che ad un certo punto il prodotto si è fuso ed identificato con il produttore (deve esistere una figura retorica per questo ma mi sfugge) anzi in un produttore, Monsanto, una delle bestie nere del movimento No Global. E così la lotta agli Ogm si è trasformata in una lotta alla globalizzazione tout court e poco importa cosa siano le piante transgeniche dal punto di vista scientifico o tecnico. Senza contare che Monsanto non è l’unica industria che produce e commercializza sementi OGM e nemmeno che la contestata politica di commercializzazione delle sementi, delle Royalies e dell’impossibilità di usare sementi autoprodotte, non si limita agli OGM ma si estende a tutte le sementi ibride e certificate utilizzate in agricoltura da decenni in tutto il mondo.

È come se volessi attaccare Mc Donald vietando il consumo di patatine fritte o intraprendessi una crociata contro Bayer bandendo il consumo di Aspirina.

E la politica? Lasciamo perdere..

Quando si parla di interventi legislativi per limitare l’uso di una nuova tecnologia alimentare è necessario che vi sia un riferimento ad un rischio, per la salute del consumatore o per l’ambiente. Su questi aspetti i decisori sono chiamati giustamente ad intervenire. Ragione per cui quando si tratta di gestione del rischio alimentare o ambientale ad avere voce in capitolo sono gli organismi che decidono sulla salute e sull’ambiente, in Italia il Ministero della Salute e quello dell’Ambiente. Tra l’altro su rischio alimentare e ambientale, ha un forte potere decisionale la Comunità Europea per cui in genere gli stati membri si limitano a recepire. Il Ministero delle Risorse Agricole e Forestali deve tutelare le politiche a favore del settore agricolo, i mercati, la valorizzazione della qualità ma di fronte ad un rischio alimentare (se c’è) non dovrebbe potere niente. Se cioè il Ministero della Salute, accertato un rischio richiedesse il ritiro di un prodotto e quello dell’Agricoltura si opponesse perchè tale intervento danneggia gli agricoltori saremmo tutti d’accordo a gridare al conflitto d’interesse. Non si può invece, in ambito di CE, limitare l’introduzione di una produzione per proteggere il mercato esistente o quello interno. Questo si chiama protezionismo.

Ora torniamo agli OGM.

Nell’ultima puntata della fiction “OGM (Oh My God)” il Ministro delle risorse agricole e forestali Nunzia De Girolamo ha firmato un Decreto insieme al Ministro della Salute Lorenzin e al Ministro dell’Ambiente Orlando. I motivi della sua contrarietà agli OGM li trovate in questo intervento al Congresso Coldiretti dove spiega chiaramente (“senza se e senza ma”) il suo NO alla coltivazione degli OGM perchè influenzata dagli interessi degli agricoltori e dei mercati. Dice (trascrivo):

“A me non mi condizioneranno né le multinazionali, né qualche giornalista condizionato dalle stesse (ha in mente qualcuno? ndr) “C’è una sola categoria che mi potrà condizionare nelle mie scelte, voi l’Italia dell’Agricoltura. Perchè è con voi che io mi dovrò confrontare, ed ogni volta che ho ascoltato la vostra voce ho sentito no, ogni volta che guardo al mercato, che è l’altra categoria che mi influenza sento tanti no ”,

al che c’è anche da chiedersi se abbia mai pensato di farsi non tanto influenzare o condizionare quanto piuttosto anche solo informare da qualche scienziato indipendente visto che alla vigilia del voto sul Decreto del 12 luglio il Gruppo di scienziati di Dibattito Scienza ha lanciato un appello a lei come a tutti i parlamentari.

Se poi andate avanti ad ascoltare l’intervento del Ministro trovate che il suo timore è legato alla tutela del Made in Italy e della qualità dell’agroalimentare italiano (di questo ne parleremo più avanti) e solo parlando di questi aspetti continua (trascrivo ancora):

“Il mio sogno è di essere ricordata come il ministro del Made in Italy. E vi lancio una sfida, a voi, a chi ci ascolta, ad Andrea e Beatrice” (Orlando e Lorenzin, si chiamano per nome i nostri ministri perchè da quando sono andati in ritiro si vogliono tutti tanto bene ndr) con i quali vorrei sottoscrivere questo Decreto, perchè è insieme che dobbiamo fare la battaglia”…

Ma in realtà i due ministri citati non dovrebbero avere a cuore la questione OGM allo scopo di difendere il modello economico italiano! Se c’è un motivo dovrà essere relativo alla sicurezza alimentare no? Eppure lei (la Nunzia) non ne parla affatto. Il motivo per cui gli OGM non sarebbero adatti all’agricoltura italiana non ha niente a che fare con la salute dei consumatori o con un eventuale danno ambientale. I motivi sono altri e hanno l’obiettivo di tutelare il mercato agricolo italiano e l’agroalimentare di qualità nei confronti di qualcosa di nuovo. I motivi sono del tutto protezionistici. E non solo per questo sono sbagliati.

I piccoli grandi equivoci (che fanno comodo a molti)

La politica della qualità e il Made in Italy

C’è una sola frase tra i cinque punti di Carlo Petrini che spiegano la sua contrarietà agli OGM pubblicati su Repubblica alla vigilia della manifestazione anti OGM del 20 giugno scorso sulla quale sono fondamentalmente d’accordo: “L’Italia basa una parte importante della sua economia sull’agroalimentare di qualità.”

Giustissimo, ma perchè un’agricoltura nella quale ci siano anche (non solo ovviamente, questo lo potrebbe sostenere solo un pazzo) piante geneticamente modificate non deve essere considerata di qualità? Perchè una tecnica di miglioramento genetico in grado di introdurre nelle piante caratteri di resistenza alle malattie (che arricchiscono i prodotti in fitotossine e richiedono l”uso di fitofarmaci in campo), o ne migliori le proprietà nutrizionali o la resistenza ad alcuni fattori ambientali (come la siccità per esempio richiedendo un uso minore di risorse idriche) non deve essere considerata di qualità? Non c’è nessun motivo per cui un prodotto OGM per esempio debba essere meno saporito di uno diciamo “normale”.

Se oggi l’Italia eccelle nella produzione agroalimentare è perchè nei decenni passati la ricerca italiana di miglioramento genetico delle piante coltivate è stata all’avanguardia. O forse qualcuno vuol fare credere che il pomodoro Sammarzano o le varietà di grano duro dalle quali si ottiene la pasta siano varietà spontanee?

Un altro dubbio: siamo sempre sicuri che le produzioni italiane siano le migliori a prescindere? L’equivalenza Italiano = qualità così come quella Cinese = porcheria non è mica un dogma, deve essere sempre verificabile o non è sostenibile.

Faccio un esempio.

Nei paesi mediterranei negli ultimi anni il mais è spesso soggetto all’insorgenza di funghi (Aspergillus) che sviluppandosi determinano la comparsa delle aflatossine, cancerogene che sopra certi livelli rendono il mais inadatto all’alimentazione umana e animale. Gli attacchi della piralide, un insetto parassita, insieme ad altri fattori, favoriscono lo sviluppo di Aspergillus. Il mais in Italia viene principalmente destinato all’alimentazione delle bovine da latte, dalle quali si ottiene anche la materia prima per alcuni prodotti di eccellenza, come i famosi formaggi del Made in Italy. Nel 2012 una percentuale molto elevata di mais ha superato i livelli consentiti di aflatossine e sembra che anche quest’anno le cose non andranno meglio.

Il Mais Bt è resistente alla piralide e quindi più difficilmente viene attaccato da Aspergillus ecc ecc. Ma in Italia non si può coltivare (secondo il nostro Governo a differenza di quanto già stabilito a livello europeo in più gradi, cosa che tanto per cambiare ci varrà un infrazione). Ma si sa, l’agricoltura italiana è un’agricoltura di qualità e gli OGM non farebbero che danneggiarla.

La biodiversità

Mi dispiace deludere chi pensa all’agricoltore come depositario di un tesoro di biodiversità, ma l’agricoltura moderna signori è tutt’altro che una condizione naturale.

La maggior parte delle piante erbacee vengono coltivate a partire da semente certificata che ogni anno viene acquistata dall’industria sementiera che ne garantisce la qualità (cioè l’assenza di sementi estranee come quelle delle infestanti o di parassiti come anche l’omogeneità varietale. Per alcune piante (come il mais ad esempio) l’uso degli ibridi non permette di riutilizzare vantaggiosamente le sementi delle generazioni successive alla prima (è possibile ma le caratteristiche di produttività dell’ibrido si vanno via via riducendo di generazione in generazione).

Nelle piante arboree la situazione è addirittura più estrema perchè queste vengono moltiplicate per via agamica. Questo significa che le viti (o i peschi) non si seminano ma si propagano per talea, per cui tutte le piante ottenute da una pianta madre sono identiche alla prima e cioè sono cloni. E in alcune piante come la vite la tecnica di selezione clonale ha fatto in modo che i selezionatori individuassero le piante migliori (per alcune caratteristiche qualitative o agronomiche) e ne facessero dei cloni, sempre assolutamente uguali, propagati e venduti dai vivaisti come materiale certificato.

Sì è vero, questo provoca un assottigliamento enorme della variabilità genetica delle specie coltivate che espone anche le coltivazioni a dei rischi non indifferenti (che cosa succede se arriva un parassita sconosciuto e i cloni più diffusi non sono in grado di resistergli? O se i parametri della qualità cambiano e nessuno dei cloni diffusi li possiede?).

La conservazione della variabilità genetica delle piante coltivate è fondamentale e spesso sono gli istituti di ricerca, all’interno di collezioni chiamate banche del germoplasma, a dover fare da scrigno per tutto quello che non viene più coltivato ma che potrebbe (ma anche no) un giorno essere utile.

Il fatto è che sto divagando perchè in questo sistema (che potete pure definire aberrante, non mi scandalizzo, anch’io credo che ci sia qualcosa di sbagliato) gli OGM non c’entrano affatto. Perchè questo è lo stato della biodiversità presente nell’agricoltura attuale, anche in quella italiana di qualità. In quanti lo sanno?

L’interesse di pochi (l’accusa di monopolismo fatta da chi sta sotto la lente di ingrandimento dell’Antitrust)

Forse il timore è che approvando gli Ogm tutti in Italia si mettano a coltivare Mais Bt o Soia Roundup Ready. Il problema quindi sta nel rischio di concentrazione: gli OGM li fanno solo le multinazionali che lavorano per i loro sporchi interessi. Una cosa è vera, le Multinazionali investono in ricerca sulle colture (Mais e Soia) dalle quali si aspettano un grande ritorno a livello mondiale, difficilmente investiranno nel miglioramento genetico della lenticchia (per dirne una). E allora? Non sarebbe più saggio permettere alla ricerca pubblica di fare il resto nell’interesse delle colture e delle varietà più care al Made in Italy piuttosto che vietare l’ingresso della Soia Roundup Ready o del Mais Bt che magari non interesseranno a nessuno in Italia? Perchè non erano mica coltivazioni di Mais le piante sperimentali del professor Rugini dell’Università della Tuscia che nel 2012 sono state distrutte per Decreto, erano olivi e ciliegi migliorati, i cui risultati (che tutti avevamo pagato) non conosceremo mai.

Su un Dossier Biotecnologie sul rischio OGM di qualche anno fa leggo:

Sono in molti ad intravvedere nelle produzioni dell’ingegneria genetica la possibilità da parte di un potente settore industriale di ribadire una supremazia a discapito di settori economici primari come l’agricoltura e la produzione alimentare. Poiché infatti i cloni e i transgeni possono essere prodotti soltanto da strutture ad elevata capacità tecnico-scientifica, è molto facile che essi cadano in mano a pochi gruppi che inevitabilmente attueranno una politica di utilizzazione dei loro prodotti per esigenze economiche e commerciali, in modo assoluto.”

L’autore di questo documento è Coop che a quanto parrebbe da quanto scritto non attua alcuna politica per esigenze economiche e commerciali (e quale allora? No mi risulta che sia un’organizzazione No Profit). Peccato che a scagliarsi contro il rischio di monopolismo sia un rappresentante della GDO e che questa sia stata messa recentemente sotto stretta sorveglianza dall’Antitrust per il preoccupante e crescente potere delle centrali d’acquisto.

Questo solo per dire che chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Il danno di tanta disinformazione

Mettere da una parte i buoni e dall’altra i cattivi non mi è mai piaciuto ma in Italia sembra che per aiutare il pubblico a farsi un’opinione sia il sistema migliore. E’ facilmente manipolabile, si può gestire a livello politico, aiuta a fare demagogia e crea degli eroi positivi e dei demoni da attaccare, e poi tutti hanno giocato a indiani e cowboy, cosa c’è di meglio? Se poi i cattivi sono multinazionali e sono anche americani la battaglia sembra già vinta in partenza (meglio che sparare sulla Croce Rossa). Dall’altra parte ci mettiamo delle ONG con un potere mediatico spaventoso (che sono buone per definizione), una Grande Distribuzione che sta dalla parte dei consumatori (ma a quanto pare soffoca i produttori), qualche guru della comunicazione e il gioco è fatto. Il pubblico si è fatto un’opinione e sarà difficile tornare indietro.

E la scienza? Ops, la scienza c’entrava qualcosa? Vabbè ormai ci siamo dimenticati di farla parlare, se vuole lo può fare ora, ci sarà un talk show adatto, ma dove la mettiamo, tra gli indiani o tra i cowboy?

Sarò pessimista ma il bicchiere io lo vedo mezzo vuoto. Questa volta la scienza ha perso e noi, l’Italia e la sua agricoltura, abbiamo perso con lei.

Se volete approfondire la questione del dibattito sugli OGM, senza voler essere esaustiva sull’argomento, vi consiglio alcuni link italiani e non che ne parlano:

L’opinione di Mark Lynas, ex ricercatore e attivista di Greenpeace che ha cambiato idea sugli OGM (e per me uno scienziato che cambia idea è da tenere in grandissima considerazione:

http://www.marklynas.org/2013/01/lecture-to-oxford-farming-conference-3-january-2013/

Qui trovate anche la trascrizione e tradotta in italiano: http://lucadifino.wordpress.com/2013/01/25/perch-ho-cambiato-idea-sugli-ogm/

Il Blog La Scienza in cucina ospitata dal sito di Le Scienze di Dario Bressanini:

http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/category/ogm/

Il Salmone.org, un sito di divulgazione scientifica:

http://www.salmone.org/ogm-cosa-sono/

 Prometeus, l’house organ dell’Associazione Nazionale Biotecnologi Italiani, che ospita anche gli interventi di Federico Baglioni promotore dell’evento #Italy4science

30 anni di OGM

Siediti e scrivi due lettere, il blog di Daniele Oppo:

E quindi niente

 

 

Innovazione e vino, Enoforum 2013 e altre notizie.

pensiero positivo

Ho deciso di essere meno negativa. Quindi quando dovrò dare o commentare una notizia buona e una cattiva comincerò d’ora in poi sempre da quella buona, per chiudere con quella cattiva e riservare solo a chi arriva fino in fondo tutto il mio sarcasmo, il mio cinismo e i pH bassissimi ai quali riesco talvolta ad arrivare. Ma negli attacchi solo cose da elogiare!

La settimana scorsa si è svolto a Arezzo un Congresso di tecnica e scienza della vigna e del vino molto speciale, si chiama Enoforum, ed è organizzato da Sive (Società Italiana di Viticoltura ed Enologia) e da Vinidea s.rl.

Enoforum non è un Convegno scientifico normale (di quelli ce ne sono diversi) perchè gli scienziati non vanno a presentare i loro lavori di ricerca ad altri scienziati e poi non ci sono solo gli scienziati che lavorano nelle Università e negli Istituti di Ricerca, ma anche quelli delle aziende, quelli che scrivono R&D sui biglietti da visita, e dei quali ho fatto parte anch’io, oppure ci sono gli scienziati dei Centri di Ricerca che lavorano con le aziende, e tutti parlano all’utilizzatore del prodotto delle loro ricerche e innovazioni: il produttore.

A Enoforum cioè si incontrano e si raccontano il mondo della ricerca, il mondo delle aziende fornitrici di prodotti e servizi e quello dei produttori di vino, tutti insieme a dimostrare che l’interazione tra ricerca e produzione esiste ed è possibile.

Non solo ma da alcuni anni gli organizzatori hanno istituito un premio (che quest’anno si è sdoppiato nel premio Nazionale e in quello Internazionale), intitolato a Giuseppe Versini, ricercatore trentino di fama internazionale scomparso qualche anno fa, nel quale sono i produttori che valutano i lavori degli scienziati sulla base del ritorno applicativo delle loro ricerche (naturalmente c’è anche un referee che ne giudica il valore scientifico).

Ad Enoforum negli anni gli scienziati hanno imparato a parlare il linguaggio della produzione e i tecnici a leggere nelle parole della scienza. Ad Enoforum sono nati contatti, conoscenze ed amicizie (e mi fermo qui perchè sarò anche una frequentarice storica di questa manifestazione ma di più non so).

Le prime edizioni (credo che la prima sia stata nel 1999) si svolgevano in un albergo a Pescara e le aziende di prodotti e servizi presentavano i risultati della loro ricerca in dei moduli autogestiti (assolutamente autogestiti perchè ci si portava anche il videoproiettore) nei quali però l’aspetto scientifico e tecnico dovevano rigorosamente prevalere su quello commerciale.

I moduli, che come adesso avvenivano in contemporanea, si ripetevano il giorno dopo (la cosa era piuttosto odiosa per i relatori ma molto comoda per chi non voleva perdersi nemmeno una relazione).

Poi Enoforum si è arricchito, sono arrivati i seminari dei relatori internazionali, la sessione poster e la partecipazione della ricerca pubblica nazionale e Internazionale con il Premio SIVE.

Quest’anno mi sono goduta Enforum da spettatore, senza l’ansia da prestazione del relatore. Le novità presentate ad Enoforum sono state tante e non riuscirò sicuramente ad esporle tutte qui. C’è la nuova proteina estratta dalla patata da usare come alternativa alle proteine animali allergeniche nella chiarifica dei vini. Ci sono le nuove tecnologie adatte alla produzione di vini senza solforosa, come il tappo sintetico prodotto in atmosfera protetta che limita l’accesso dell’ossigeno nella bottiglia, o il ceppo di lievito ottenuto con tecniche di miglioramento genetico per produrre meno solforosa. Ci sono le ricerche di soluzioni innovative più sostenibili in vigneto e in cantina, come gli ibridi resistenti alle malattie della vite che non necessitano di trattamenti con pesticidi e le tecniche “no residue” di sanificazione e igienizzazione della cantina con ozono.

E poi ci sono i nuovi mezzi di controllo come i nasi elettronici in grado di monitorare i processi di appassimento delle uve o le tecniche di analisi infrarosso applicate al lievito per rilevarne lo stato fisiologico, o i nuovi metodi di analisi sensoriale adatti anche a rilevare i gusti del consumatore.

Ci sono tutti i progetti sulla sostenibilità (Eco-Prowine, Tergeo, VIVA sono quelli presentati a Enoforum) destinati a creare una sensibilità misurabile e certificabile per produzioni più green e più sostenibili. E lo sforzo del Forum creato da Michele Manelli per farli dialogare tutti insieme e non creare confusione anzichè chiarezza nel consumatore sommerso dai bollini verdi. Ma di questo magari ne riparleremo.

Ognuna delle 100 relazioni e dei 65 poster presenti meriterebbe un suo spazio in questo Blog (e magari alcuni ce lo avranno) che del resto si chiama innovino.

Questa è l’innovazione che mi piace, quella vera, che intinge le sue radici nella scienza e che guarda ai produttori e alle loro esigenze.

E con questo avrete capito che è finita a parte buona e che sta per comicniare l’affondo. Infatti, avete capito bene.

Faccio qualche passo indietro e torno al Vinitaly. A guardare le rassegne stampa anche alla manifestazione veronese si parlava di innovazione. Ottimo no? Per la precisione a parlarne era Coldiretti che inneggiando all’innovazione enologica presentava nientepopodimenoche lo spumante con le pagliuzze d’oro e quello rifermentato e evoluto negli abissi marini, e poi il vino nella bottiglia in pietra lavica o il Prosecco prodotto con l’accompagnamento di un’orchestra in ogni sua fase. Il Comunicato stampa completo è qui http://www2.coldiretti.it/News/Pagine/237—7–Aprile-2013.aspx.

SpumanteOro

Il presidente commentava che “Si tratta di esempi di successo che puntano a valorizzare la distintività del prodotto e il legame con il territorio e la cultura locale per vincere la competizione sul mercato globale”. Ora sorvoliamo sugli esempi di successo (perchè chi non conosce il vino con le pagliuzze d’oro?) ma com’è che questi prodotti (a parte la pietra lavica vabbè) dovrebbero valorizzare il legame con il territorio? Si tratta forse di oro raccolto nei fiumi del bergamasco o vogliamo dire che il Mar Ligure è un territorio viticolo o ancora che è la musica di un’orchestra e non il rumore dei trattori il suono più tipico nelle campagne venete?

Ma come, proprio loro? Quelli che solo il chilometro zero, oh yeah?

E dove sono le prove scientifiche che consentono di fare affermazioni come “Le piccole stelle d’oro che fluttuano senza alterare profumo e gusto dello spumante (ci mancherebbe anche quello) non rappresentano soltanto un fatto estetico in quanto il prezioso metallo possiede virtù terapeutiche e proprietà antiossidanti.” C’è gente che per affermazioni del genere potrebbe utilizzare le catenine della Comunione come condimento (ok questa è un po’ grillesca perdonatemi).

Sulla base di quale verifica o esperienza si afferma che “la condizione climatica (degli abissi marini) è ottimale perchè il lieve movimento delle correnti culla e rigira delicatamente le bottiglie.” Oddio, in effetti è vero che le fermentazioni via mare fanno parte della storia della frode alimentare, nelle stive dal Sud Italia il mosto diventava vino prima di arrivare nei porti del Sud della Francia dove veniva imbottigliato, ma il fenomeno sarà lo stesso di quanto avviene nelle preziose bottiglie immerse nei fondali marini?

E cosa vuol dire che “Un abbinamento, quello tra il vino e la musica che fa sì che ogni sorso diventi musica per il palato per una degustazione non banale, ma curata e consapevole.” Consapevole di cosa? Il vino fatto con la musica è diverso, è più buono o no, da quello fatto in silenzio o nel più assoluto frastuono? E se le viti avessero ascoltato i Dire Straits come sarebbe venuto?

Ma per piacere!

E per concludere la chicca di disinformazione della serie vino e salute: “la linea di spumanti per chi ha problemi di linea, prodotta nel pieno rispetto del Metodo Classico senza zuccheri aggiunti.” E ad una cosa così uno ci potrebbe anche credere quindi chiariamo: 1 – l’aggiunta di zuccheri nella produzione degli spumanti è consentita e si chiama dosaggio, a seconda di quanti zuccheri restano nel vino lo spumante è brut, secco, dolce e così via. 2 – gli zuccheri aggiunti (saccarosio) dopo pochissimo e per effetto dell’acidità del vino si trasformano negli stessi zuccheri presenti naturalmente nell’uva e nel vino e cioè glucosio e fruttosio. 3 – di vini spumanti Metodo Classico senza zuccheri aggiunti ne esistono molti e si chiamano “non dosati” “pas dosé” o “nature”.  4 – se anche ci fossero zuccheri (aggiunti o no) non sono molti (meno di 12 g/l in un Brut) e sicuramente il potere calorico dell’alcol  che si consuma sarebbe maggiore.

Ma le bizzarrie di innovazione pseudo-scientifica nel mondo del vino non sono solo ad appannaggio di Coldiretti.

Qualcuno di voi conosce Erectus ? Erectus (e la sottile allusione NON è del tutto casuale) è il metodo di produzione viticola sviluppato da un simpatico produttore romagnolo che ritiene, sperimentazioni alla mano, che la naturale e più idonea posizione dei grappoli nella loro maturazione sia con le punte rivolte in su. Ci sarebbe da chiedersi come mai allora non ci siano state varietà o specie che darwinianamente parlando non si siano avvantaggiate di questo carattere e si siano evolute invece solo specie di Vitis con il grappolo irrimediabilmente “ammosciato” (ops).

Ora sia nel caso delle innovazioni presentate al Vinitaly (che però data la potenza di tiro di Coldiretti non prenderei ad esempio) sia nel caso del simpatico inventore di Erectus (per il quale il nome ha fatto la sua parte), quando si tratta di cose bizzarre mascherate da innovazione la copertura mediatica è sempre assolutamente invidiabile.

Ma il povero consumatore (che probabilmente ha saputo di Enoforum solo se è aretino o di poco più in là) cosa deve pensare del mondo del vino e della sua capacità di innovazione? Che siamo un mondo mediamente tradizionalista che di tanto in tanto, quando ha tempo, voglia e denaro, si inventa qualcosa di bislacco per stupire e vendere di più?

Attenzione questa non è innovazione e men che meno scienza! Gli scienziati nel mondo del vino esistono davvero, sono persone serie, molti di loro sono anche simpatici ma nessuno porta un cappello con le punte e i sonagli.

Ora in una delle lezioni più interessanti del mio Master in Giornalismo Scientifico, intitolata “ È la stampa, bellezza” si spiegavano le regole della notiziabilità ma la bizzarria non era una di queste. Altrimenti alla mia domanda “perchè i giornali parlano di Erectus e non di micro-ossigenazione o di ibridi resistenti?” mi sarei data la giusta risposta “È la stampa, bellezza” (che mi averebbe anche gratificato personalmente) e sarei stata contenta così e invece no. Di chi è la colpa allora?

Qualche idea ce l’avrei. La colpa è dei giornalisti che (con le attenuanti di un lavoro frettoloso e spesso mal pagato) non vanno più in la del comunicato stampa e lasciano che l’informazione sia fatta da chi lo emana, tanto più se dotato di forza politica e comunicativa come nel caso di Coldiretti, senza approfondire, commentare e criticare come dovrebbero.

La colpa è degli scienziati che se hanno imparato a parlare con i produttori come è successo ad Enoforum, devono imparare a parlare anche con i consumatori e con i giornalisti, per far sapere che loro esistono e lavorano e fanno cose interessantissime!! Mi sono trovata io stessa a cercare materiale magari italiano (perchè la prossimità quella sì che è una regola della notiziabilità) su un argomento per poi, ad articolo consegnato trovarmi ad Enoforum di fronte al ricercatore che aveva fatto quello che mi ci voleva una settimana prima, bello e sorridente accanto al suo poster. Quindi faccio questo appello a tutti gli scienziati italiani: se avete fatto qualcosa di interessante e avete da qualche parte quel biglietto da visita di quel giornalista o il numero di telefono di quel comunicatore, usatelo! Male che vada vi dirà che non è notiziabile (È la stampa, bellezza).

E magari se alla prossima edizione anche una manifestazione per addetti ai lavori come Enoforum riuscisse ad abbattere il muro della notiziabilità e a far parlare più di se e di scienza della vite e del vino non sarebbe mica male..

Vino, cambiamenti climatici… e rane bollite.

La metafora della rana bollita

Sull’ultimo numero del 2012 di Nature è stato publicato un articolo, firmato dal giornalista inglese Jamie Goode, che parlava dei rischi per il settore vitivinicolo legati ai cambiamenti climatici. Ora, Nature non è Le Iene e non lancia allarmi mediatici o antiscientifici solo per riempire i Social network e aumentare l’audience. Nature è Nature, basta la parola.

Secondo i climatologi nel giro di pochi anni (cioè entro la fine del secolo) il limite di coltivazione della vite si sposterà di circa 1000 chilometri, verso Nord nel nostro emisfero verso Sud nell’altra metà del mondo. Nei paesi di maggior tradizione vitivinicola, che basano l’espressione della qualità sulla relazione suolo/clima/attività umana, detta in una parola di successo sul terroir, questo può avere riscontri drammatici. Significa che nel giro di pochi decenni potrebbero non esserci più le condizioni per produrre un Borgogna o un Chianti Classico, perchè mettiamo anche che le condizioni climatiche si possano ritrovare più a Nord (o più in alto) e anche che i saperi dell’uomo e le varità si possano trasferire, che dire del suolo?

La vite non è una pianta cosmopolita, si adatta ad una fascia climatica abbastanza ristretta e ogni varietà ha un diverso grado di adattamento ai cambiamenti per cui è difficile dire oggi come cambierà il panorama del mondo vitivinicolo.

Letto questo comincio a fare le mie ricerche e scopro che in ambiente scientifico le previsioni riportate da Jamie Goode si allineano con il primo allarme lanciato nel 2005 da Gregory Jones, un ricercatore della South Oregon University.

Una review completa è quella, non attualissima, riportata dai ricercatori della Staford University su Practical Winery and Vineyard Journal.

C’è poco da stare allegri.

Poi arriva febbraio con Benvenuto Brunello, la manifestazione di presentazione dell’annata in uscita del Brunello di Montalcino nella quale vengono assegnate anche le stelle (la valutazione della qualità) all’annata appena conclusasi. Quest’anno toccava al Brunello 2012: cinque stelle. E scopro che mentre il mondo guarda preoccupato ai cambiamenti climatici i produttori ilcinesi fanno festa. Il messaggio è che il Brunello (o meglio il Sangiovese a Montalcino) non risente dei cambiamenti climatici.

Telefono al mio amico Marco (dott. Marco Mancini) che si occupa di agrometereologia e di relazione tra cambaimenti climatici e qualità dei vini all’Università di Firenze e gli chiedo come stiano le cose. E lui mi spiega che in effetti è così, gli studi del gruppo di ricerca di Firenze e quelli di altri gruppi in giro per il mondo hanno verificato che nel breve periodo gli innalzamenti di temperatura e la riduzione delle piogge nel periodo estivo-autunnale sono correlabili con un incremento della qualità percepibile dei vini (le stellette delle annate). Almeno per i vini rossi. Fino a quando e in quale misura in funzione della varietà non ci è dato saperlo, chi vivrà vedrà.

I cambiamenti climatici e le loro conseguenze sono un fenomeno globale e come tali devono essere affrontati a livello altrettanto globale, dai governi e dalla politica prima di tutto. La scienza e i settori della produzione più minacciati (come l’agricoltura) hanno il compito di esercitare la loro pressione sui primi. La scienza (anche gli scettici ultimamente hanno cambiato idea) sta facendo il suo lavoro, i produttori non saprei. Perchè è vero che il Brunello 2012 sarà una gran bella annata e che dal 2018 potremo gioire dei frutti di questa strana estate, ma più che questo mi sarebbe piaciuto sentir dire “signori miei, nel 2018 avremo un Brunello con i fiocchi, ma non pensate che la situazione si stia facendo preoccupante e che per dare un futuro a queste produzioni (ad alto valore aggiunto, che resistono alla crisi e rappresentano una fetta importante del PIL nazionale) sia il caso di fare qualcosa di concreto che ponga un freno al riscaldamento globale?”.

Leggere Nature e sentire i produttori ilcinesi che applaudono nel loro paradiso dorato (del quale hanno tutto il merito) però mi mette a disagio e mi fa pensare ad una metafora che mi piace molto e che si applica a diverse situazioni, quella della rana bollita.

Si tratta di questo.

Se prendete una rana (non lo fate per carità) e la mettete in una pentola di acqua bollente la rana si accorge del cambiamento sfavorevole e scappa (“sono mica scema”).

Se però mettete la rana in una pentola di acqua fredda e poi accendete il fuoco sotto la pentola, la rana resta lì. E via via che la temperatura sale lei si adatta (è un animale a sangue freddo), anzi a un certo punto ci sta proprio bene al calduccio, sempre meglio. Finchè per la temperatura che sale non si trova a provare un piacevole stordimento, finchè non si ritrova bollita. Fine della storia.

 

 

 

 

Please relax parte 3: Un viaggio nel mondo del grande Sacc.

Moyasimon: Tales of Agriculture di Ishikawa Masayuki – un manga sui micro-organismi di interesse agrario e alimentare.

Nella discussione vini naturali/vini artigianali/vini industriali uno dei più tirati in ballo è il ceppo di lievito: indigeno, autoctono, spontaneo, industriale, sintetico, globalizzato, varietale, internazionale, ecotipico, omologato.. su di lui si sente dire di tutto.

Ne cito una fra tutte: “nei nostri vini non si fa uso di lieviti selezionati industriali ottenuti in laboratorio”, selezionati ok, industriali anche, ma come si fa a ottenere un lievito in laboratorio?

 Facciamo chiarezza, vi va?

Prima di tutto occorre presentare lui, l’attore protagonista: ecco a voi Saccharomyces cerevisiae.

Il lievito responsabile della fermentazione alcolica (e cioè del processo di trasformazione degli zuccheri semplici, glucosio e fruttosio, in alcol e anidride carbonica) è un fungo unicellulare, senza dubbio tra gli organismi più studiati e conosciuti al mondo.

Per citare solo uno dei suoi successi Saccharomyces cerevisiae (Sacc per gli amici) è stato il primo organismo eucariote il cui DNA sia stato completamente sequenziato.

Per quanto famoso non c’è consulente enologico che regga al suo confronto, Sacc è il vero artefice della vinificazione, senza di lui il vino non si fa. E sicuramente il successo è meritato perchè il lievito della fermentazione è un personaggio tanto interessante quanto eclettico, in grado di fare tutto e il contrario di tutto.

Per esempio in condizioni anaerobie fermenta gli zuccheri ma se le condizioni lo permettono e c’è ossigeno a sufficienza (e perchè no ?) è anche in grado di respirare (quello respiratorio è un metabolismo più vantaggioso che permette di ottenere più energia a parità di substrati consumati).

Per esempio in condizioni non limitanti si riproduce per via asessuata, producendo per gemmazione generazioni e generazioni di cellule figlie assolutamente identiche alla capostipite. Se però le condizioni cambiano anche il metabolismo riproduttivo “shifta” sulla riproduzione sessuata, la cellula produce le spore e i gameti, che accoppiandosi daranno origine ad una progenie geneticamente eterogenea (con una nuova variabilità), nella quale ci saranno individui con i caratteri più adatti per colonizzare la nuova situazione.

Del fascino dei meccanismi evolutivi e delle capacità di adattamento dei micro-organismi magari parleremo un’altra volta, lasciatemi solo dire che la nostra società “evoluta” avrebbe talvolta molto da imparare osservandoli.

In natura, per esempio sulla superificie delle uve, sulle zampe delle vespe o sulle attrezzature di cantina, sono presenti lieviti di diversa specie, Saccharomyces e non Saccharomyces, e per ogni popolazione è presente una determinata varibialità genetica, con individui e gruppi di individui con corredo genetico e caratteri diversi, i ceppi.

Quando le condizioni si rendono favorevoli, come quando la popolazione naturale della buccia si trova immersa in un mosto ricco in zuccheri consumabili (fermentescibili), le cellule cominciano a moltiplicarsi e a fermentare gli zuccheri. Alcuni lo faranno più velocemente e efficientemente, altri meno, come in una gara. Alcuni saranno veloci a produrre alcol, altri produrranno anche acido acetico, altri ancora rilasceranno qualche puzzetta di acido solfidrico o di anidride solforosa. Nella maggior parte dei casi alla fine della fermentazione pochi, i più resistenti, sopravviveranno e consumeranno anche gli ultimi zuccheri in condizioni di concentrazione alcolica ormai alta. Tutti però avranno contribuito alla composizione e alle caratteristiche del mosto diventato vino.

Un lavoro di selezione dei lieviti consiste nell’isolare i diversi ceppi presenti (nel mosto o sull’uva ad esempio) e nel caratterizzarli in condizioni controllate in laboratorio: il ceppo A è il più veloce, il ceppo B quello che parte meglio, il ceppo C quello che resiste meglio alle temperature elevate, il D quello che resiste meglio all’alcol e così via.  – Poi ci sarà il ceppo E che molla puzzette di H2S e quello lo si eliminerà dalla selezione, perchè i selezionatori sono sempre persone molto perbene e i ceppi poco educati non piacciono a nessuno 😉  –

Una volta isolati e caratterizzati, i ceppi possono essere rimoltiplicati, in condizioni di laboratorio o industriali, che tuttavia non modificano né le loro caratteristiche né la loro origine. I lieviti moltiplicati vengono essiccati per produrre i cosiddetti LSA (lieviti secchi attivi) o distribuiti in forma fresca di pasta o di lievito liquido. Il lievito selezionato cioè si può moltiplicare, riprodurre o produrre, ma non lo si può “ottenere” in un laboratorio.

Generalmente si parla di fermentazioni spontanee con i lieviti indigeni quando in cantina non vengono utilizzati i lieviti selezionati e ci si affida ai processi di selezione naturale sulla popolazione naturalmente presente; si parla di lieviti selezionati autoctoni o meglio ecotipici quando si utilizzano colture di lieviti selezionati nella zona di produzione (e quindi coevolutisi con il resto dell’ambiente/terroir ecc) e poi rimoltiplicati per essere inoculati, mentre si parla di ceppi commerciali o industriali quando si utilizzano lieviti selezionati e prodotti (generalmente in forma di lieviti secchi attivi LSA) in qualsiasi regione del mondo senza particolare attenzione alla loro provenienza. Nella realtà anche la definizione di autoctono non è esattam perchè un micro-organismo è definito autoctono (in microbiologia medica per esempio) quando occupa lui e lui solo una determinata nicchia ecologica. Se così fosse da uno stesso ambiente, (per esempio da uno stesso vitigno in un vigneto o in una cantina) per due o più anni successivi  si dovrebbe poter isolare sempre lo stesso o gli stessi ceppi. E questo non è mai stato dimostrato. Quindi chiamiamoli indigeni o di territorio o ecotipici, che è meglio.

Global e no global a loro insaputa

Ma i Saccharomyces cerevisiae dal punto di vista biologico, siano essi indigeni, ecotipici o industriali in cosa differiscono? Assolutamente in niente: stessi metabolismi (chi più chi meno), stessi cromosomi, stessi geni. Naturalmente sono diversi i caratteri o meglio sono diversamente espressi come in qualunque popolazione mondiale vivente (c’è chi ha gli occhi azzurri e chi ha la pelle olivastra). Esistono lieviti naturali? Certo che esistono anzi direi di più, tutti i ceppi di Saccharomyces sono lieviti naturali e tutti sono indigeni. Perchè tutti i lieviti selezionati (con tecniche tradizionali) sono stati isolati dal loro ambiente naturale in una determinata regione viticola nella quale erano indigeni.

Tutto il resto avviene assolutamente a loro insaputa!

Prendiamo i due lieviti forse più utilizzati al mondo: EC1118 Lalvin e Davis522, il primo universalmente utilizzato nella fermentazione dei vini bianchi e nella presa di spuma dei vini spumanti, il secondo nella fermentazione delle uve rosse. Il primo è stato selezionato ad Epernay nella regione dello Champagne, il secondo a Davis in California. Fino a quel momento anche loro avevano vissuto allo stato libero nelle cantine e nei vigneti delle loro regioni.  EC1118 e Davis 522 sono nati indigeni e lo sono ancora nelle loro regioni di origine. Sono lieviti ottenuti in laboratorio? No, nessun lievito selezionato (a parte i pochi lieviti OGM esistenti e non commercializzati in Europa e alcuni altri ceppi ibridi ottenuti da miglioramento genetico tradizionale) è stato ottenuto in laboratorio: hanno solo avuto un grande successo mondiale. Per fare un parallelo lo Chardonnay e il Merlot si considerano varietà ottenute in laboratorio perchè piantate in ognidove? No, ma hanno avuto un grande successo mondiale. Perchè? Perchè sono dei vitigni con caratteristiche buone e costanti, tutto qui.

Ok giusto, la biodiversità c’è e se si vuole va rispettata.

Molte ricerche hanno affrontato il tema dell’ecologia microbica ovvero della composizione della popolazione in microorganismi presenti sull’uva e in cantina e di come questa si evolva nel corso delle fermentazioni spontanee.

Nella maggior parte dei casi i risultati hanno confermato il fatto che Saccharomyces cerevisiae è presente con poche cellule sulle uve e che sia la pressione selettiva svolta dal mosto, legata alla concentrazione in zuccheri e quindi allo sviluppo di alcol, al pH, alla temperatura, alla presenza di anidride solforosa, che fa sì che dopo le prime fasi della fermentazione questo prenda il sopravvento e porti a termine la fermentazione.

Sulle uve e nel mosto prima della solfitazione e nelle primissime fasi della fermentazione sono presenti anche una seri di altri lieviti, cosiddetti non Saccharomyces con caratteristiche e metabolismi diversi, la cui presenza dipende largamente dalle condizioni dell’ambiente nel quale si trovano, prima tra tutte la temperatura.

Si tratta di generi e specie diversi come Hanseniaspora e Hansenula, Pychia, Rhodotorula, Candida, Metchikowia Schizosaccharomyces, Kluyveromyces ecc.

Lo stesso Saccharomyces naturalmente partecipa ad una fermentazione spontanea con un pool di ceppi con diverso genotipo, che si succedono nelle diverse fasi, fino alla dominanza di quelli più performanti dal punto di vista fermentativo.

È il contributo di ognuno di questi lieviti e ceppi che i produttori che adottano le nuove fermentazioni spontanee desiderano recuperare, perché se è vero che al traguardo della fermentazione (salvo intoppi) arriva uno o pochi ceppi con buone caratteristiche fermentative, tutti quelli che vi hanno partecipato, anche i non Saccharomyces hanno lasciato nel vino i prodotti del loro metabolismo che possono aver contribuito alla definizione della sua tipicità.

Tutto estremamente affascinate….ma non dimentichiamo che:

  1. La pressione selettiva non è uguale tutti gli anni, quindi non tutti gli anni avremo la stessa popolazione e successione, ma questo potrebbe fare parte della variabilità delle annate (anche l’uva non è uguale tutti gli anni).

  2. Del resto è stato provato anche che, non essendo la cantina un ambiente sterile, negli anni i ceppi di Saccharomyces cerevisiae in grado di portare a termine la fermentazione che hanno dominato un anno sopravvivono e dominano nelle fermentazioni anche negli anni successivi. Se poi inn cantina si fa o si è fatto uso di lieviti selezionati nella maggior parte dei casi saranno questi che, accasatisi nell’ambiente, domineranno le fermentazioni.

  3. La comunità microbica non partecipa dei nostri obiettivi produttivi, il che equivale a dire che ai lieviti della qualità del nostro vino non gliene importa un bel niente. Di conseguenza i criteri di selezione naturale che agiscono nel corso di una fermentazione spontanea e quelli imposti da un processo scientifico di selezione possono almeno in parte differire. Noi chiediamo al nostro lievito selezionato di consumare tutti gli zuccheri in tempi ragionevoli, resistere a fattori sfavorevoli (alcol, pH, SO2, basse o alte temperature) di non produrre metaboliti responsabili di difetti organolettici e magari di produrne altri che ci aggradano? Poichè gli obiettivi della cellula del levito sono quelli di sopravvivere, mangiare e riprodursi, in parte le cose possono coincidere e il campione dei ceppi che vincerà la lotta per la sopravvivenza nella fermentazione spontanea, sarà quello che mangia di più, si moltipica più in fretta e si adatta meglio ai cambiamenti dell’ambiente perchè più resistente ad alcuni fattori sfavorevoli. Ma sulla sua determinazione a non produrre sostanze che a noi non piacciono non sarei così sicura.
  1. In alcuni casi potrebbero essere presenti microrganismi (batteri o altri lieviti) che possono portare danno alla qualità del vino e bisogna conoscerli per evitarli: per gestire correttamente una fermentazione spontanea occorre un know how di microbiologia enologica non indifferente, la possibilità di capire, dall’analisi microbiologica, l’esame microscopico o l’andamento dei metaboliti se tutto sta andando bene e intervenire tempestivamente, sapendo come ricorrere ai lieviti secchi attivi come “mezzo di soccorso” se qualcosa invece “va storto”. Le condizioni di gestione non devono tornare alle origini ma fare tesoro dell’esperienza di un secolo di microbiologia enologica.

  2. Non è impossibile condurre delle fermentazini spontanee corrette ma per farlo occorre allertare tutti i sensi e i mezzi analitici a disposizione. Non si deve lasciar fare al caso (e alla microflora batterica e micetica presente che come abbiamo detto ha finalità diverse dalle nostre) ma tenere tutto sotto controllo ed eventualmente intervenire per favorire l’uno o l’altro tra i micro-organismi presenti (e quindi sapere prima di tutto chi risponde all’appello). La via della fermentazione spontanea per avere vini di qualità non è l’abbandono all’oblio ma una via complessa. Conosco alcuni produttori che conducono fermentazioni spontanee senza delegare al caso la qualità dei loro vini e vi assicuro che passano il periodo delle fermentazioni con l’occhio incollato al microscopio. Abbiamo idea di quanti produttori, tra quelli che si professano “naturali” sono in grado di tenere sotto controlo microbiologico una fermentazione? Basterebbe un microscopio, ma quanto è diffuso l’uso del microscopio nelle cantine italiane? Potrei azzardare che più o meno l’ 1% delle cantine ne possiede uno essendo sicura di essere stata molto, ma molto ottimista.

  3. quando l’obiettivo è quello di preservare i localismi e i prodotti del territorio, ivi compresa l’espressione dei lieviti della fermentazione, prediligendo la scelta dei ceppi ecotipici, trovo molto sensato il compromesso con le necessità di controllo, di alcuni produttori di selezionare il proprio ceppo (a livello aziendale o consortile) e di affidarsi alle imprese che propongono il servizio di conservarlo e moltiplicarlo al momento giusto, generalmente in forma di pasta o di crema liquida.

E per finire un po’ di storia alla ricerca dei fattori della qualità.

Le possibilità di selezionare i lieviti per gestire la fermentazione alcolica furono sondate nell’arco di pochissimi anni dalle scoperte di Pasteur, prima nel settore birrario e poi in quello enologico (Muller Thurgau fu uno tra i primi selezionatori di lieviti per l’enologia). Fino ad allora naturalmente tutte le fermentazioni erano spontanee ma poco sappiamo sulla costanza qualitativa di quei vini molto diversi da quelli che si presentano oggi e sulle reali esigenze di un mercato sicuramente meno globale e competitivo.

Molte delle cosiddette malattie dei vini citate nei trattati di enologia della prima metà del secolo scorso, come l’amaro, il filante, l’agrodolce, per lo più di natura batterica e ormai quasi debellate, rappresentavano dei rischi reali e la preoccupazione principale era legata ai problemi di acescenza, prodotta da lieviti apiculati, batteri acetici e batteri lattici.

Oltre naturalmente alla presenza di condizioni igieniche precarie nelle cantine di un tempo, il pool di microrganismi presenti nei mosti aveva ampie possibilità di svilupparsi sia prima che nel corso della fermentazione alcolica e le condizioni selettive (grado alcolico elevato, temperature controllate, uso dell’anidride solforosa) non erano sufficienti a garantire fermentazioni nelle quali si avesse la garanzia della prevalenza (e del completamento) di Saccharomyces cerevisiae.

L’introduzione dei lieviti selezionati in quell’enologia rappresentò sia per coloro che cominciarono ad utilizzarli che per quelli che continuarono a gestire le fermentazioni in modo spontaneo, la prova che una corretta gestione della fermentazione con il completamento del consumo degli zuccheri da parte di Saccharomyces rappresentasse la chiave di volta per evitare tutti i problemi di natura microbiologica e per migliorare gli standard qualitativi dei prodotti.

È per questo motivo che i criteri selettivi dei primi ceppi prodotti e distribuiti nelle cantine erano basati su quelli che oggi chiamiamo caratteri tecnologici: capacità fermentativa, durata della fase di latenza, resistenza all’alcol e all’anidride solforosa, bassa produzione di acidità volatile, bassa produzione di schiuma.

Senza l’avvento di quei primi ceppi selezionati e dei pionieri che per primi li utilizzarono nelle cantine, probabilmente i progressi nelle conoscenze relative alla gestione delle fermentazioni con tutto quello che ne comporta non ci sarebbero stati (importanza dei composti azotati e dei fattori di sopravvivenza, uso dell’ossigeno in fermentazione ecc.).

Man mano che l’uso dei lieviti selezionati si diffondeva anche i criteri selettivi si andavano affinando e arricchendo di nuove conoscenze sull’influenza del ceppo di lievito sulla qualità dei vini prodotti. Contemporaneamente le cantine andavano via via cambiando, migliorava il livello igienico generale, i vasi vinari in legno e in cemento cedevano il passo a materiali più facilmente sanificabili, come il cemento vetrificato, il vetroresina e infine l’acciaio inox e in molte cantine cominciava a diffondersi l’uso del caldo e del freddo per il controllo delle temperature di fermentazione.

Anche i vini si modificarono nelle loro caratteristiche e nel loro stile, sia a seguito di gestioni agronomiche più accorte, che prediligevano la produzione di qualità rispetto a quella di quantità, sia per andare incontro al gusto di consumatori sempre meno locali e “affezionati” anche al lieve difetto, e sempre più attenti alla qualità.

Si arriva così ai giorni nostri dove, con vini nei quali il problema di correttezza tecnica e microbiologica appare risolto (ma così purtroppo sappiamo che non sempre è) e con caratteristiche generalmente molto diverse da quelli di un secolo fa, ci si chiede se la via da percorrere sia quella di puntare allo stile dominante dei mercati internazionali e globali o di riscoprire e valorizzare le tipicità locali.

La risposta è nella strategia di ogni produttore, nel suo stile di produzione, nelle sue possibilità di controllo.

Strategia che coinvolge anche l’opportunità o meno di utilizzare lieviti selezionati e, nel caso in cui si scelga di utilizzarli, di valutarne la provenienza, favorendo talvolta la scelta di ceppi selezionati nella zona di produzione, i cosiddetti lieviti ecotipici, allo scopo di rispettare l’ambiente e preservarlo dall’ inserimento di genotipi esogeni.

Lungi dal ritenere che la standardizzazione del gusto sia una strada che porta lontano per i nostri vini, sono sicura che la tipicità e la qualità risiedano in molti altri fattori (primo fra tutti la purezza varietale, il rispetto dei disciplinari e l’assenza di ricorso a “vitigni complementari o miglioratori”) prima di arrivare al ceppo di lievito.

La mia storia professionale mi lega molto al nostro  Sacc., ma esattamente come si fa con i figli desiderei che almeno in parte lo si potesse sollevare da questo sovraccarico di responsabilità. Chi fa la qualità e la tipicità dei vini? La fa l’uva, la fa il suolo, la fa la corretta vinificazione, la fa il rispetto dei disciplinari. Il lievito partecipa certo (due ceppi diversi danno vini diversi per alcune caratteristiche) ma è un comprimario, piccolo, costante e responsabile, uno di quelli che tirano la volata. Il lievito aiuta sicuramente anche nella definizione delle caratteristiche organolettiche, ma non esageriamo! Se c’è standardizzazione organolettica e proprio vogliamo puntare il dito  orienterei altrove i miei sospetti.

Per approfondire

http://www.agricoltura24.com/enologia-la-selezione-e-il-mito-dei-lieviti-autoctoni/0,1254,54_ART_2206,00.html

http://millevigne.it/periodico-articoli/lieviti-e-terroir-rapporto-complicato-di-tony-scott