Sto partecipando ad un “gioco” che potremmo chiamare di Social Tasting e che già di per sé sa di innovazione. Funziona così: martedì prossimo, 15 ottobre, a Rubbia al Colle la tenuta toscana dei fratelli Muratori si parlerà di Vino e Argilla, e cioè della nuova tendenza di utilizzare, come nel passato, contenitori in argilla nella vinificazione o nell’affinamento dei vini. Il programma della giornata lo trovate descritto in questo video.
Michela Muratori ha coinvolto un panel virtuale formato un gruppo di blogger, giornalisti e assaggiatori presenti sul web e sui social media, inviando loro due bottiglie di Sangiovese, il Vigna Usilio, affinato in legno e il Barricoccio, il vino di Rubbia al Colle affinato in contenitori in terracotta dalla forma delle barrique, i barriccocci appunto.
Lo scopo non è tanto quello di confrontare i due vini (che sarebbero comunque diversi per annata, vigna di provenienza, vinificazione e gradazione alcolica) bensì quello di valutare rispetto ad un vino diciamo della tradizione enologica moderna (affinato in legno), se l’affinamento in terracotta sia in grado di conferire delle caratteristiche riconoscibili, nuove e apprezzate.
Il “giochino”, come l’ho interpretato io poi, è quello di prendere spunto dall’assaggio per riflettere su un’altra domanda: perchè reintrodurre la terracotta nelle cantine?
È un’innovazione oppure è solo una nostalgica voglia di ritorno al passato come la riscoperta di tante altre pratiche o l’abbandono di altre che sta andando tanto di moda?
Inizio quindi con l’assaggio e poi dato che siamo su un blog che parla di scienza e di innovazione, vestirò come sempre i panni dell’avvocato, pardon, dello scienziato del diavolo, avanzando i miei dubbi soprattutto tecnologici sull’uso della terracotta, ai quali in parte cercherò risposta nelle testimonianze dei produttori che hanno intrapreso questa strada, martedì a Rubbia al Colle, e in parte dagli scienziati che nei prossimi anni spero vorranno occuparsi di questo fenomeno.
L’assaggio
Non è un confronto, l’ho già detto, ma le differenze date da tecniche diverse di affinamento sono molto evidenti.
Il Vigna Usilio possiede tutti quei caratteri che negli ultimi anni hanno fatto grandi i Sangiovesi toscani nel mondo, fruttato quanto basta, note di sottobosco, volume e morbidezza dei tannini. Et voilat ecco a voi la toscanità.
Lo so, molti inorridiscono quando sentono parlare di innovazione di prodotto nel mondo del vino, ma anche i vini cambiano, come cambiano le persone che li bevono, e dal mio punto di vista, senza abbandonare gli ormai collaudati Vigna Usilio, che in fondo ci piacciono e ai quali nessuno toglie meriti, dall’enologia Toscana sarebbe forse ora che nascesse anche qualcosa di nuovo e il Baricoccio è la prova che senza andare a cercare lontano il Sangiovese, interpretato in modo diverso, possa rappresentare questa opportunità.
Perchè il Barriccoccio è un vino profumato, che sa di uva e di ciliegie e che in bocca resta un po’ nervoso e astringente, caratteri che anche i consumatori cominciano ad apprezzare senza più cercare la morbidezza a tutti i costi.
E la cosa più apprezzabile è che quei profumi sono ovviamente quelli del Sangiovese che cresce nei vigneti di Suvereto e non altrove. Un Barricoccio fatto su altri terreni e in altre condizioni di coltivazione in Toscana sarebbe probabilmente molto diverso. Una nuova interpretazione del Sangiovese e del suo territorio che tra l’altro, mi piace dirlo, viene da una zona anch’essa nuova, della Toscana “non classica”. Un vino nuovo “diversamente toscano”. Ecco nuovo, l’ho detto.
Una storia affascinante, ma non è archeologia sperimentale
Nell’uso dei contenutori di argilla, i vini, se si distinguono per le loro caratteristiche come fa il Barricoccio, si possono considerare un prodotto innovativo. Ma l’argilla no, lei per piacere non la chiamate materiale innovativo. Prima di tutto perchè nella scienza dei materiali innovativi a me viene in mente il grafene e non il cotto. Poi perchè è forse solo per il suo legame con la tradizione e per la sua storia che la si sta riscoprendo; è per il fascino e il richiamo al passato che alcuni produttori l’hanno riproposta, associandola talvolta (ma non sempre) a pratiche enologiche anch’esse arcaiche o che guardano ai “bei tempi antichi” (quando i mulini erano bianchi).
Effettivamente l’appeal del richiamo a tecniche di produzione che fanno parte delle nostre tradizioni fin dalla storia antica è forte.
La terracotta è il materiale che già ai tempi dei Romani e degli Etruschi veniva utilizzata per il trasporto e la conservazione del vino e che in alcune regioni del bacino del Mediterraneo ha continuato ad essere utilizzata anche nei secoli successivi, fino anche ai giorni nostri nei paesi balcanici come la Georgia.
La terracotta è un materiale dalle notevoli proprietà termiche e, verniciata o vetrificata, è stata utilizzata fino a tempi recenti nella conservazione e nella preparazione dei cibi anche in Italia, si pensi agli orci per l’olio o alle pentole e il vasellame di coccio, come si dice in Toscana.
Il legno invece è venuto da fuori, dalle regioni del Nord Europa. Furono i Galli a insegnare ai nostri produttori ad utilizzarlo anche nella conservazione dei vini. O meglio, per essere più precisi gli Etruschi e poi i Romani insegnarono ai predecessori dei Francesi a fare il vino e loro gli vendettero le botti..
In Italia però nei secoli passati la tecnica di conservazione del vino nelle botti di legno era stata personalizzata (ci eravamo affrancati dal dover comprare le botti in Francia e ce le facevamo saggiamente da soli), con la costruzione di grandi botti principalmente in legno di castagno, perchè qui le foreste di quercia scarseggiavano anche in passato.
Poi nel Novecento sono arrivate le barrique, piccole botti in legno di rovere con diversa tostatura e in grado di conferire ai vini caratteri diversi (anche aromatici) e il vino e le varietà italiane hanno subito forse la contaminazione culturale maggiore. E a quel punto del legno francese non abbiamo più potuto farne a meno.
Quindi dal punto di vista storico e culturale la riscoperta dei contenitori in argilla, materiale che fa parte delle nostre radici molto più dell’uso della barrique ha un suo perchè.
C’è da dire però che tra le tantissime cose che non sappiamo degli Etruschi ci sono anche le caratteristiche dei loro vini. E se è vero che sono loro ad avere insegnato ai Romani (che invece hanno lasciato traccia descrivendo ampiamente come preparavano i loro vini o intrugli), penserei che probabilmente questi non possano rappresentare un modello per i nostri palati di uomini e donne del 21° secolo.
C’è da dire anche che i nuovi vini fermentati o affinati nei contenitori di terracotta sono comunque prodotti commerciali: non stiamo facendo un esperimento di archeologia sperimentale.
C’è da dire infine che i nostri antenati, che erano forse meno scientifici di noi ma che generalmente erano dotati di molto buonsenso, quando i Galli e poi i Francesi gli proposero le loro botti di legno, le preferirono alle anfore che furono invece abbandonate. Ci sarà stato un motivo no? Su prodotti come l’olio ad esempio gli orci in terracotta (rivestiti internamente) hanno continuato ad essere utilizzati molto più a lungo, probabilmente perchè per l’olio che teme estremamente l’ossigeno e le variazioni di temperatura, fino all’arrivo dell’acciaio non si è trovato un degno sostituto.
Grezza o vetrificata?
E ora veniamo agli aspetti tecnologi, quelli sui quali ormai, forse lo avete capito, non perdono.
Ci sono due aspetti che mi lasciano perplessa nell’uso dei contenitori in terracotta: la permeabilità all’ossigeno e la possibilità di sanificazione e pulizia.
E su questo occorre fare una distinzione perchè è soprattutto l’uso di contenitori di terracotta allo stato grezzo cioè non rivestita o vetrificata internamente, come è il barricoccio, a destare le mie perplessità.
Per la terracotta rivestita da materiali per lo più impermeabili all’ossigeno, vernici adatte al contatto con gli alimenti come avviene nelle vasche in cemento, gli eventuali problemi di ossidazione o le difficoltà di pulizia sono pressochè risolti. Semmai mi verrebbe da chiedere se gli stessi risultati qualitativi non si possano raggiungere con un affinamento in piccole vasche in cemento, materiale con simili proprietà di isolamento termico. E la risposta che mi do da sola è che forse se così fosse probabilmente martedì ce ne resteremmo tutti a casa nostra (perchè cosa ci sarebbe di nuovo?).
Alcuni produttori utilizzano la cera d’api per rivestire internamente gli orci in terracotta, per il falso principio che ciò che naturale è buono e sano. Ora la cera, probabilmente risolve il problema della permeabilità all’ossigeno ma non è neutra (per esempio cede al vino sapori o odori?) e sicuramente non facilita la pulizia e la sanificazione (non ne ho esperienza ma dubito che si possa utilizzare il vapore per pulire le anfore rivestite con la cera, no?).
Tornando alla terracotta grezza i dubbi sono molti.
La prima cosa che mi viene in mente è il ricordo della bagarre che si alzò quando con l’introduzione della lista positiva dei materiali adatti al contatto con i prodotti alimentari nel Regolamento Europeo relativo all’HACCP, furono escluse le vasche in marmo utilizzate nella produzione del lardo di colonnata. Lo stesso legno delle botti e delle barrique, in quanto materiale poroso, cedente alcuni composti e non inerte, passò l’esame per il rotto della cuffia. E va bene, convengo che se fosse per la Comunità Europea in fatto di alimenti l’acciaio potrebbe andare a sostituire qualunque altro materiale e al diavolo le tradizioni. Però quando si parla di alimenti e di rischio occorre essere molto seri. E quindi come stiamo con la terracotta non trattata internamente a questo riguardo?
La terracotta grezza in quanto materiale poroso è difficilmente igienizzabile, anche perchè le anfore hanno forme poco ispezionabili.
La sostanza organica e i micro-organismi presenti nel vino che imbibisce la parete del contenitore facilmente restano lì anche dopo che il vino è stato rimosso e se non vengono eliminati efficacemente (ma come si fa a raggiungerli?) sono dei potenziali contaminanti per i vini con i quali verranno a contatto successivamente. Quindi occorre studiare dei sistemi efficaci di sanificazione di questi contenitori, esattamente come è accaduto per il legno: per esempio si può utilizzare il vapore? è stato valutato l’uso dell’ozono?
La porosità poi rende la terracotta del tutto permeabile all’aria e all’ossigeno atmosferico, molto più del legno. Quanto ossigeno permea attraverso le pareti dei contenitori in terracotta? Nel caso del legno il fenomeno è stato ampiamente studiato e il livello di intake è equivalente all’ossigeno che il vino consuma nei suoi processi di evoluzione dei composti polifenolici e di stabilizzazione del colore. I vini cioè, soprattutto i vini rossi, sono in grado di consumare ossigeno per via chimica durante l’affinamento e lo utilizzano in alcuni processi ossidativi lenti e progressivi, nei quali il colore si stabilizza (i pigmenti rossi si combinano con i tannini estratti dall’uva per divenire meno sensibili alle ossidazioni) e i caratteri di astringenza si evolvono verso quelle caratteristiche che chiamiamo di morbidezza dei tannini.
Se però l’ossigeno è troppo, il vino si ossida e compaiono i caratteri tipici del difetto di ossidazione.
Ora ci sarà sicuramente chi sosterrà che anche la definizione di difetto è soggettiva o peggio è un’invenzione degli enologi e che l’ossidazione potrebbe essere un carattere di tipicità del nuovo eldorado enologico dei vini naturali.
Ok, sia pure (se trovate persone che li apprezzano), ma teniamo sempre conto di una cosa: i difetti (tutti) sono quanto di più omologante possa esistere e i caratteri di ossidazione (la mela stramatura, lo svanito ecc ecc) sono gli stessi su tutti i vini. Che si facciano pure “vini naturalmente ossidati” ma allora dimentichiamoci la tipicità.
Le risposte nella ricerca
E la terracotta vetrificata o verniciata diventa del tutto impermeabile all’ossigeno? E allora come favorire i processi di stabilizzazione del colore e di evoluzione dei composti polifenolici nei vini rossi o anche solo come evitare gli stati di riduzione? I vini conservati in questi contenitori, che come abbiamo verificato assaggiando il Barriccoccio, conservano i loro caratteri di gioventù, come si sono evoluti, cioè cosa ha fatto la terracotta per loro? Erano molto diversi quando erano giovani davvero?
Eccolo il disegno sperimentale che risolverebbe i miei dubbi:
Testimone: vino conservato in acciaio
Tesi1: vino in vasca di cemento di piccola taglia
Tesi 2: vino in cemento di piccola taglia micro-ossigenato
Tesi 3: vino in anfora di terracotta non trattata.
Tesi 4: vino in anfora di terracotta vetrificata
Tesi 5: vino in anfora di terracotta vetrificata con micro-ossigenazione
Qualcuno lo ha già fatto? Qualcuno lo vuole fare? Io ci sto.
Gentilissimi qualcuno sa darmi dei dati sull’ affinamento dei vini rossi in anfora o meglio note bilbliografiche
Grazie
Qualcosa abbiamo fatto e posso darti molti dati relativi a cosa succede in un vino in barricoccio grezzo!! Ho anche dati relativi alle cessioni di alcune vetrificazioni dette “alimentari”, così come della cera d’api. Non per niente stiamo perseguendo una strada che ci garantisca dal punto di vista delle cessioni e al contempo ci consenta di limitare lo scambio di ossigeno.
Ma di più non dico! Il resto, domani a Rubbia al Colle davanti ad un calice di … Barricoccio!
nota: nella stesura di questo articolo ho avuto un editor di eccezione, Pietro che dalla saggezza dei suoi 9 anni mi ha aiutato nella revisione delle bozze ;). Grazie.