Gli ingredienti sono un mosto concentrato o un mosto varietale (immagino pastorizzato), zucchero invertito, lievito secco attivo, metabisolfito di potassio, attivanti di fermentazione, acido tartarico, acido citrico, bentonite, acido ascorbico, sorbato di potassio, sol di silice e tannini. Il tutto confezionato in una scatola tricolore con immagini evocative come il colosseo o uno Chateau francese. A parte è possibile acquistare il serbatoio in plastica per la fermentazione, un mostimetro per il controllo della fermentazione, la fiasca per l’affinamento, la canna per imbottigliare, le bottiglie, i tappi, la tappatrice, le etichette, le capsule.
E’ la composizione dei kit per home winemaking in commercio soprattutto negli Stati Uniti e in Canada e saliti agli onori della cronaca da quando Amazon con l’apertura della sezione Enoteca on line li ha aggiunti alla sua offerta.
Saliti agli onori (ma soprattutto ai disonori) della cronaca in quanto molti produttori nostrani e (non poteva mancare) Coldiretti hanno gridato allo scandalo.
Il primo problema sollevato (e indiscutibile) è che sui kit di Amazon spiccano i nomi di numerose denominazioni di orgine italiane (e non solo), è possibile cioè acquistare il kit per il Chianti, per il Valpolicella, per il Barolo ecc ecc.
Ora, visto che per i vini DOC e DOCG la legge e i disciplinari di produzione prevedono l’obbligatorietà della provenienza delle uve dai vigneti della relativa zona se non la vinificazione nella stessa area, è evidente che (e dato che tra l’altro in alcuni dei kit si specifica che i mosti provengono da uve selezionate nei migliori vigneti della California) siamo di fronte ad un caso di contraffazione alimentare che come tale deve essere perseguito. Il problema è che le leggi che tutelano le denominazioni di origine sono leggi europee e che gli Stati Uniti (cosa gravissima) non le riconoscono.
Anche il richiamo con immagini e nomi ai vini e alle regioni italiane sono elementi che in qualche modo creano confusione nel consumatore che pensa di acquistare un prodotto italiano mentre così non è.
Il secondo problema è ancora di carattere legale. Per vino si intende per la legge europea il prodotto della fermentazione di uve di Vitis vinifera europea, ottenuto con le pratiche enologiche consentite, niente di più e niente di meno. Un mosto concentrato rettificato, per quanto prodotto a partire da uva, diluito con acqua e magari arricchito con zucchero invertito non è contemplato. E anche questo dovrebbe essere chiaro per il consumatore: quello che si ottiene con i kit è una bevanda fermentata simile al vino, mentre il vino, quello vero si ottiene dalla fermentazione di uve fresche ottenute dalla coltivazione della vite.
Per quanto mi riguarda i problemi di carattere legale ed etico si fermano qui. La legge europea tutela già il consumatore che deve avere informazioni chiare e trasparenti: quello che acquista e che produrrà non è vino, ma potrà somigliargli, non è italiano e naturalmente tantomeno si tratta di Chianti, Valpolicella o Bordeaux. Se c’è qualcosa che porta a pensare il contrario ben vengano le crociate e le interrogazioni parlamentari per la contraffazione dei marchi alimentari.
Rivolgerei però l’attenzione al prodotto in sé, al kit. Immaginiamocelo senza tricolori, senza denominazioni altisonanti o evocative. Un kit per fare in casa una bevanda simile al vino “wine style”. Pensiamo davvero che questo prodotto possa essere concorrenziale con i nostri vini, che possa portare danno ai nostri mercati? Pensiamo davvero che il visitatore dell’Enoteca di Amazon possa scegliere il kit invece della bottiglia di un produttore italiano perchè magari più economico?
Quando si parla di mercati del cosiddetto Nuovo Mondo provo sempre a pormi nei panni dell’Americano medio, privo di vincoli di tradizione e di valori sociali ed emozionali legati al vino. Per me, che vivo nel Massachussets, il vino non è un prodotto che mi lega alla terra, mio nonno non lo produceva, da piccola non l’ho visto imbottigliare in cantina, non ho sentito i profumi della fermentazione, non ho mai aspettato con ansia la vendemmia, non è il prodotto che, anche dopo il college e la laurea, continua ad avvicinarmi e a permettermi di avere un dialogo con gli agricoltori del mio paese.
Per il mio “io yankee” il vino ha un valore socializzante nell’aperitivo con i colleghi, è un prodotto trendy e di charme, un interesse che genera delle conoscenze da esibire con gli amici tale e quale il giardinaggio. Magari è l’evocazione delle atmosfere di un viaggio. Nient’altro.
Torno volentieri nei miei panni e capisco che è questa disparità nel vedere il ruolo del vino che ci fa storcere il naso di fronte al kit, è comprensibile. Ma a questo punto faccio un altro esercizio proponendo un parallelismo con un settore con il quale il mondo del vino si confronta a mio avviso troppo poco, quello della birra. Perchè se esistono gli home-winemaker è solo perchè i kit sono stati inventati per i milioni di homebrewer presenti in tutto il mondo, Italia compresa. Lo confesso faccio parte delle schiere di mastri birrai da cucina.
Non siamo forse, noi italiani, tanto ignoranti di birra quanto il “me yankee del Massachussets” lo era di vino? Eppure abbiamo cominciato a farci la birra in casa e anche a produrre birre artigianali apprezzabili. Che ne dicono del nostro nuovo hobby in Germania, in Gran Bretagna, in Belgio? Ci considerano altrettanto barbari e incivili come noi consideriamo il kit un segno del degrado dei tempi?
Essendo a tempo perso uno di loro posso spiegare quello che muove gli homebrewer per diletto ad acquistare il loro primo kit di Mr Malt con l’estratto liquido di malto e procedere con la fermentazione. La curiosità. La voglia di capire come nascono le cose. Si comincia dalla parte più semplice (la fermentazione del mosto da diluire), poi si va avanti e ci si misura con la produzione All grain (che parte dal malto in grani). E intanto aumenta l’interesse per il mondo della birra di qualità, si acquistano le bottiglie, si assaggiano, si seguono corsi di degustazione, si visitano birrifici.
Chi si produce la birra in casa non lo fa per avere birra a basso costo (anche perchè è una fatica disumana e i costi sono tutt’altro che bassi) e competere con chi produce birra di qualità, ma perchè desidera acquisire una cultura nuova che lo porterà ad essere un consumatore modello di birre di qualità.
Perchè non possiamo vedere il kit per il vino nello stesso modo?
Non pensiamo che farsi il “vino” in casa possa essere un modo di capire qualcosa del processo produttivo del vino? E’ vero, la parte più importante, quella legata alla qualità dell’uva resta fuori e non sarà mai riproducibile con un kit. Ma la fermentazione, la trasformazione degli zuccheri, il ruolo buono e cattivo dei micro-organismi, l’importanza delle condizioni igieniche o dell’esposizione all’aria sulla qualità del vino, possono essere un’esperienza formativa anche per chi vive nel Massachussets e non potrà forse mai vivere il fascino di una vendemmia.
La qualità dei “vini” prodotti con i kit non potrà mai avvicinarsi a quella di un vino aziendale (ho condotto diverse fermentazioni sperimentali in laboratorio utilizzando succo d’uva pastorizzato e vi assicuro che il risultato è poco più che potabile).
Personalmente vedo i kit come i giochi scientifici di Clementoni o di Ravensburger: divertenti esperienze formative, niente di più.
Dopo il primo kit (che potrà essere consumato al massimo in un barbeque) l’home-winemaker acquisterà e vorrà assaggiare una bottiglia di vino italiano (magari lo troverà sempre su Amazon) in occasione di una cena elegante, o alla prima occasione vorrà partecipare ad un corso di degustazione e magari sognerà un viaggio in Toscana.
I nostri nonni: i “mezzucci” non li ha inventati Amazon.
Tuttavia continuo a capire l’indignazione di fronte a queste vie facili, che fanno pensare che esistono mezzi, polverine magiche, per produrre vino senza uva. Noi che questi mezzi non li usiamo e non li abbiamo mai usati, giustamente ci indignamo. Noi che ancora facciamo il vino come lo facevano in nostri nonni, genuino e naturale.
Infatti.
Il pdf in allegato è il mio regalo per il 2013. Catalogo_Soave &co_900
Me lo conservavo per rispondere a chi una volta scoperto che lavoro nel mondo del vino poneva la fatidica domanda furbastra “Ma dimmi, il vino si fa davvero con le polverine ai giorni d’oggi?”.
Siccome odio tutti quelli che per abitudine deprecano i costumi d’oggi, i giorni d’oggi, i giovani d’oggi ecc. mi ero preparata a sfoderare questo documento storico (trovato nell’archivio del mio bisnonno, non so se mai utilizzato) avrei risposto “Adesso no, si fa con l’uva, lo posso testimoniare.. ma ai vecchi tempi forse..”.
Si tratta di un catalogo di prodotti per l’enologia dell’inizio del ‘900 (la data non è riportata ma lo farei risalire ad un periodo compreso tra il 1890 e il 1920) della Ditta Soave e Compagnia di Torino.
I prodotti sono molti, tutti molto interessanti, lascio a voi il piacere di scoprirli tutti. Nella pagina centrale sono elencati “prodotti enologici e diversi per affinare, disacidare, allungare, chiarire, colorire, guarire, imitare ed invecchiare ogni sorta di vini ed aceti”.
Ci sono le “Essenze profumate per fabbricare ogni sorta di vini nazionali, ed esteri con vini ordinari: Vino Amarena di Siracusa, Alicante, Barolo, Barbera, Bordeaux, Grignolino, Brachetto, Capri Bianco e rosso, Chambertin, Frontignano, Lacrima Cristi bianco e rosso, Lunel , Madera, Malvasia, Marsala, Medoc, Moscato di Siracusa, Nebbiolo di Trani, Sauterne, Vini del Reno. – La bottiglia per 25 litri (coll’istruzione) di ciascun vino L. 3 – per 50 litri L. 5 – Per 100 litri L. 8 – Per 1000 litri L. 50.
C’è il “Pianto della vite: succo tanto ricercato per fabbricare con vini ordinari ed anche senza vino, vino Champagne spumante delle più ricercate qualità e degno di figurare sopra le migliori tavole, uguale a quello che si fabrica in Avise, le Menil, Oyer e Epernay – “
E poi c’è la “Polvere Enantica, composta con acini d’uva ed erbe fragranti per preparare con tutta facilità un buon vino rosso di famiglia, economico e garantito igienico.”
Guardare al passato fa sempre bene, non è stato proprio Amazon a inventrasi il vino con le polverine. Guardare al passato fa sempre bene, aiuta ad abbassare il naso. Dopo gli anni in cui Soave e Co. svolgevano la loro “interessante” attività, in Italia, siamo stati salvati dalla legge sulle denominazioni d’origine, è vero, ma forse anche il mito della tradizione non è poi così intoccabile, no?
Bel post, complimenti! Condivido la tua riflessione: i kit per farsi il vino vanno visti proprio nell’ottica che dici, della scoperta, un po’ del gioco se vogliamo, del cercare di capire di più e meglio… il mondo del vino. Se i soloni nostrani che si stracciano le vesti ululando alla lesa maestà del prodotto “vino italiano”, frequentassero di più la rete, e leggessero in giro blog e forum e perfino YouTube (tutti in lingua straniera, mi spiace per loro), dedicati all’argomento “wine DIY (acronimo che sta per “fai da te”) capirebbero che chi compra questi kit è molto meno ingenuo di quel che pensano. Sa benissimo che il Chianti che uscirà dal suo kit sta all’originale come certi Chanel n°5 che si trovano sulle bancarelle del mercato settimanale stanno a quello autentico. Ma è la soddisfazione di “fare” che conta, la curiosità di capire questo mondo, la chimica della fermentazione, e tutto quel che ci sta dietro, davanti, prima e dopo. Questi kit sarebbero un pericolo per il vero vino “made in Italy”? ..mah! non è che stiamo dando corpo alle ombre?
Concordo pienamente con la tua chiave di lettura, ma ciò non toglie che siamo un branco di caproni incapaci di tutelare e/o sfruttare nomi e marchi, e nelle voragini create da tali incapacità che proliferano da un lato le frodi e dall’altro lato gli “ululanti stracciatori di vesti”